Recensione | La testa perduta di Damasceno Monteiro
La storia inizia ai bordi di periferia dove Manolo il Gitano trova il corpo senza testa di un ragazzo.
Firmino, giovane reporter di un quotidiano di Lisbona, viene inviato sul luogo per un’inchiesta giornalistica coi fiocchi. Ad aiutarlo nell’indagine l’avvocato Fernando Mallo soprannominato Loton per via della sua somiglianza con l’avvocato Laughton, protagonista del film “ Testimone d’accusa”.
La storia della testa mozzata di Damasceno Monteiro, condita dai ritmi lenti e profumati di Porto, metterà in luce gli abusi di poteri e la concreta certezza di una giustizia svuotata della sua stessa essenza.
La testa perduta di Damasceno Monteiro si distacca dal noir tipico che ha come oggetto l’intrigo. Qui mancano i colpi di scena e il mistero è già bello che risolto. Ciò che l’autore vuole far emergere è il motivo che ha spinto alla violenza e la sua indicibile verità.
Chi si batterà per essa sarà Firmino, giovane reporter amante della letteratura portoghese, aiutato dall’avvocato Fernando Mello, aristocratico e anarchico, impegnato nella difesa gratuita dei derelitti.
Io difendo gli sciagurati perché sono come loro, questa è la pura e semplice verità. Della mia nobile casata utilizzo solo il patrimonio materiale che mi è rimasto, ma come i disgraziati che difendo credo di aver conosciuto le miserie della vita, di averle capite e anche assunte, perché per capirle bisogna mettere le mani nella merda, scusi la parola, e soprattutto essere consapevoli. E non mi costringa alla retorica, perché questa è retorica a buon mercato.
Tra un piatto di trippa e discussioni letterarie, un tramonto sul mare e nuovi indizi e congetture sotto la luce calda della sera, i due inchioderanno gli assassini denunciandone l’abuso di potere verso i più deboli.
Ciò che apprezzo maggiormente di Tabucchi è la semplicità della sua scrittura anche quando tratta argomenti tanto delicati. Ogni suo libro scorre come i sorsi del miglior porto.
In questo romanzo, letteratura e giornalismo si tengono per mano e insieme vanno oltre ciò che è visibile. E se, come diceva Tabucchi, la letteratura deve far sorgere domande, è proprio grazie ai loro continui interrogativi che Firmino e Don Fernando trovano risposte e verità.
La penna di Tabucchi si rivela, ancora una volta, portavoce delle ingiustizie in ogni tempo e lo fa con quella velata ironia e abilità introspettiva da sempre caratteristica dell’autore.
Cosa ci resta di questo libro? L’amara consapevolezza di appartenere a un sistema che non sempre è giusto.
Un finale aperto che lascia intravedere la speranza di coloro che non si arrendono ai soprusi di potere e che hanno cura di quel testimone “ fragile come il cristallo”
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