Le furie | Janet Hobhouse
Le furie è un romanzo intenso e potente, così come potente è l’introduzione affidata a Philip Roth.
Quest’opera autobiografica parte da un punto molto lontano.
La Hobhouse, infatti, fruga nelle sue radici e avvolge i fili del passato regalandoci una vicenda di donne, quelle della sua famiglia. Figure femminili forti, asfissianti, intessute di fragilità o di fascino, “rami di un albero” sempiterno.
Ciascuna di noi ha condotto una vita imperniata sull’esistenza di una madre buona e una cattiva, un fato dal viso di donna che esordiva con un sorriso e poi diventava carnivora. “Mamma”, “nonna” erano solo i termini intercambiabili con cui ognuna di noi identificava il suo angelo o la sua gorgone privata, e contro cui portava avanti la propria guerra per la sopravvivenza.
Leggere quest’autobiografia è un po’ come sfogliare l’album di famiglia in cui possiamo osservare la matriarca Mirabel priva di bellezza ma dalla forza prorompente; Gogi libera e estrosa, Angel e infine Bett e Helen. Le troviamo lì, ultimi ritratti di Furie; Bett, mamma bellissima, ingenua, eternamente fragile, ancora troppo bambina per divenire madre, e Helen che si ferma ad ammirarla come il resto del mondo. E mentre lei cresce, saltando da un lavoro all’altro, preda dei desideri maschili, sua madre resta lì, ferma, nel suo rossetto rosso, dea nata per sedurre.
Dovrà crescere Helen per entrambe. Lo farà sorvolando l’Atlantico per avvicinarsi a quel padre mai conosciuto: un inglese troppo duro con moglie e figli accanto. A lui, Helen, chiederà solo di essere amata, null’altro. Si riplasmerà per compiacerlo, per essere affine ai suoi modi, a quel mondo al quale in fondo sa di non appartenere. E il senso di disintegrazione si farà sempre più profondo, lacerandola dall’interno.
Lacerazione che non si salderà nemmeno attraverso il matrimonio con Ned che verrà tradito per tornare a sentirsi libera.
Dopo alcune settimane niente di ciò che potevo offrirgli sembrava sufficiente a incrinare la sua sicurezza nel proprio fallimento, e alla fine imparammo a conviverci.
Il punto cardine di questo racconto così intimo resta comunque il rapporto con la madre e la sua depressione, il germe della follia che balla lento nell’anima e che l’accompagna al gesto estremo.
L’aveva congedata con disprezzo, come un disturbo << ecco il tuo bacio del cazzo>> e dopo, solo l’assenza.
Il tormento di non aver compreso, di averla salutata a quel modo. Un vuoto che si propaga per tutto il tempo che resta nella vita di Helen
Provavo una gelosia violenta ogni volta che le vedevo: le madri e le figlie […] corpi che si piegavano l’uno verso l’altro con aria cospiratrice o si allontanavano a causa di una lite, che facevano progetti, ridevano dei ragazzi, che facevano, mentre io guardavo e immaginavo, ciò che Bett aveva sempre desiderato fare con me, e che era così semplice.
Un ultimo graffio ancora; il cancro alle ovaie si sta nutrendo della sua linfa vitale. Janet sa che sta per morire mentre dà vita a questo splendido romanzo. Ultimo ramo di quell’albero sempiterno.
Le furie, amorevoli e vendicative, a volte Erinni, a volte Eumenidi, sono lì, sebbene mai nominate a ricordarci la ferocia del semplice esistere.
Si sfilaccia il cuore a ogni riga, si intravede in ogni parola la filigrana della nostra esistenza ma giace nel doppiofondo dell’anima, la speranza:
“Avevo amato ed ero stata amata e alla fine, cioè ora, era l’unica cosa che contava“
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!