Le farfalle di Sarajevo
Farfalle di Sarajevo è una lettura necessaria, soprattutto oggi, per ricordare di non voltarci dall’altra parte dinanzi alle guerre e alle atrocità. Non è stato facile scegliere le parole per raccontarvi questo libro. Spero siano sufficienti per invogliarvi alla lettura.
Sarajevo è bella. Il suo profilo è delineato dalle montagne. Gli antichi quartieri ricordano che la sua storia affonda le radici in epoche lontane. I meravigliosi ponti ottomani, le chiese cattoliche, il fascino dei bazar e dei suoi tetti rossi. Sarajevo è sempre stata esaltata come un modello di tolleranza.
Un esempio di convivenza pacifica. Sì, perché mezza Sarajevo è musulmana, un quarto serba, meno di una persona su dieci è croata. Un terzo dei matrimoni è misto e i figli si definiscono semplicemente jugoslavi.
È così che la vede Zora, rimasta a Sarajevo dopo aver mandato la madre e il marito in Inghilterra a casa della figlia. È aprile 1992 e un mese prima la Bosnia-Erzegovina aveva dichiarato la sua indipendenza dalla Jugoslavia. Qualcosa inizia a muoversi. L’atmosfera è surreale. Molte sono le famiglie che fuggono da Sarajevo. Ma Zora, la “pittrice di ponti”, resa famosa dalla sua arte, continua a dipingere e insegnare nello studio all’ultimo piano della Viječnica, la biblioteca nazionale con la splendida cupola di vetro azzurro.
Non fa in tempo ad accorgersi di cosa accade intorno che, mentre si ritrova a pranzo con i suoi vicini di casa, lo scoppio di una bomba infrange i vetri e rompe le certezze. Perfino oltrepassare il magnifico ponte delle Capre non è più possibile. “Questa adesso è Republika Srpska. Solo serbi”.
Nell’alternarsi delle stagioni prende vita il racconto sui giorni vissuti da Zora durante l’assedio di Sarajevo. La sua città è bombardata, l’inverno entra con prepotenza dalle finestre rotte. Acqua ed elettricità sono state tagliate. Sugli scaffali non c’è più cibo, la gente non può lavarsi e fuori sale il puzzo dei cadaveri lasciati a marcire per le strade. I buchi alla cintura sono sempre di più, si cucinano ortiche e piccioni.
I vicini di Zora diventano la sua famiglia. Sopravvivono e soffrono insieme. Una, la bambina di otto anni, diventa la sua ancora di salvezza in una città grigia e senza vita. L’albero che dipingono sulla parete le ricorda che la vita è più forte e rinascerà, nonostante le bombe.
E poi c’è Mirsad, il libraio, al quale si stringe nelle lunghe e fredde notti d’inverno.
E poi ci sono le farfalle di Sarajevo che si posano leggere tra i capelli. Sono i frammenti di libri bruciati insieme alla Viecnica, la biblioteca nazionale.
E c’è una bambina uccisa mentre sorrideva alla vita.
Trascorrono 10 mesi prima che Zora venga salvata dal genero e da Eddie l’olandese.
La guerra durerà per altri 34 mesi.
Ma il primo anno fu il peggiore in termini di persone uccise. Nel luglio 1995 si urlerà genocidio a Srebrenica. A dicembre 1995 le bombe smetteranno di esplodere.
Farfalle di Sarajevo è un libro intenso, quasi a tratti poetico e la scrittura di Priscilla Morris si rivela delicata e diretta.
Come la stessa autrice ci racconta, le vicende prendono spunto dalle narrazioni di chi la guerra l’ha vissuta, invitandoci a documentarci.
Lo stesso invito lo rivolgo a voi per comprendere meglio l’eterogeneità slava, quella differenza che nasce da un’identità comune.
Dove la lingua non è identificativa di una razza, né lo è la religione.
<< Ho preferito il termine “nazionalità”per evitare ogni indicazione che i tre gruppi siano antropologicamente diversi. […] appartengono al medesimo ceppo slavo e non hanno tratti somatici che li differenzino.
L’identità nei Balcani è un fatto serio. Un fatto che ha portato a troppe morti mentre l’Occidente preferiva non guardare.
Quindi leggiamo, informiamoci e mettiamoci dalla parte giusta della storia.
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