Pubblicati da Cristina

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Viaggio in Portogallo | José Saramago

Viaggio in Portogallo | José Saramago

Chiunque creda di trovare in queste pagine una semplice guida, commetterebbe un errore.
Saramago, infatti, ci porta con sé nel suo personale viaggio in terra natìa. Un viaggio fuori e dentro di sé, attraversato dalla cultura, dalle luci, dalle voci e le armonie di un paese di cui egli stesso è parte.

Composto da 55 capitoli, il viaggio inizia lungo la frontiera spagnola nei pressi di Miranda do Douro e termina nel profondo sud dell’Algarve.
Saramago visita centinai di posti, (ricordarne tutti i toponimi è ardua impresa) scopre luoghi lontani dai soliti circuiti turistici. Si intestardisce a trovare coloro che detengono le chiavi per aprire quel monastero o quella chiesa che nasconde grandi bellezze.
Per il suo viaggio segue l’istinto o le reminiscenze storico letterarie e lo arricchisce con aneddoti e leggende narrate dagli abitanti del luogo.

Questo libro è il racconto di viaggio di un viaggiatore solitario d’altri tempi che aggiunge atmosfere e emozioni alle descrizioni di chiese, quartieri e monumenti.
È il personale punto di vista di Saramago viaggiatore/autore su un intero paese e che resta impassibile dinanzi a Batalha e al suo monastero. Lo stesso non accadde a me quando mi recai in questo paesino che mi incantò con i suoi colori giallo ocra e il silenzio della piazza intorno.
Come il viaggiatore nella copertina del libro si confonde tra gli azulejos, allo stesso modo il viaggio di Saramago si perde nel Portogallo intero e quasi gli si sovrappone.
 E quanto più ci si immerge nella lettura, tanto più il Portogallo stesso apparirà profondo come l’oceano che lo accarezza.
Così come profonda è anche la scrittura di Saramago che balla al ritmo della sintassi portoghese fatta di tradizione letteraria e oralità. Il lessico spazia dal popolare al colto fino all’uso di tecnicismi appartenenti all’architettura e alla storia dell’arte.

Questo viaggio in Portogallo è una storia. Storia di un viaggiatore all’interno del viaggio da lui compiuto, storia di un viaggio che in sé stesso ha trasportato un viaggiatore, storia di un viaggio e di un viaggiatore riuniti nella fusione ricercata di colui che vede e di quel che si è visto… Prenda il lettore le pagine che seguono come sfida e invito. Faccia il proprio viaggio secondo un proprio progetto, presti minimo ascolto alla facilità degli itinerari comodi e frequentati, accetti di sbagliare e di tornare indietro, perseveri fino a inventare inusuali vie d’uscita verso il mondo. Non potrà fare miglior viaggio

Non potrei descrivere diversamente questo libro che racchiude tra le sue pagine un viaggio che si fonde col viaggiatore nel quale l’uno diviene parte dell’altro. Nel panorama pezzi di sé, nel cuore il paese intero.

Sento ancora l’eco dei miei passi nel silenzio di una giornata soleggiata a Obidos. Il fado che si propaga nell’Alfama e il vento tra i capelli.

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I pesci non hanno gambe | Jon Kalman Stefansson

I pesci non hanno gambe | Jon Kalman Stefansson

Scelto per un viaggio in Islanda, questo libro scava nell’oscurità di questa terra per ricordarci l’arte e la vita. Non sarà questo paese meraviglioso il protagonista vero del romanzo. Ma leggendone le pagine si potrà comprendere meglio ciò che gli occhi non vedranno.

Ari fugge da Keflavik dopo aver mandato all’aria il suo matrimonio facendolo diventare un banale martedì. Editore e scrittore di successo, amante delle parole ma incapace di comunicare, è costretto, molti anni dopo, a tornare proprio da dove era fuggito.
Ed era tornata dal Canada un secolo prima, con una valigia piena di sogni e di amore, anche sua nonna Margrèt. Si spogliò della sua America per l’uomo che amava e si ritrovò ingabbiata in un villaggio di pescatori dove il mare prevale su tutto: sulla rabbia, sul dolore, sui sentimenti.

La Keflavik di Stefansson è agonizzante. Le sono state strappate via le quote ittiche e i tralicci su cui essiccare il pesce. Cosa resta allora a questo villaggio di pescatori abituato a sfidare le onde per vivere?!

A Keflavik ci sono tre punti cardinali; il vento, il mare e l’eterno.

Per Ari l’unica bussola valida e sempre eterna diviene l’arte.

La cosa che impedisce di dissociarsi (…) di andare in pezzi, di diventare sventura, una ferita gocciolante o pura e semplice crudeltà, è la creazione letteraria, la musica, l’arte. Il motivo per cui ognuno può, nonostante tutto, perdonare a sé stesso di essere un uomo.

La storia oscilla tra presente e passato scavando così a fondo nella storia, fuori e dentro di noi, che ci perdiamo non nelle imprese eroiche ma nei piccoli gesti degli esseri umani che si fondono con l’esistenza e con il mondo e che spiegano la costante ricerca della propria individuale felicità.

I pesci non hanno gambe ci racconta la storia di Ari e dei suoi antenati, di pescatori che vogliono navigare fino alla luna, di sogni incagliati tra le reti dei pescatori. Ci parla della storia buia dell’Islanda dove d’inverno la luce si palesa appena, così lontana e flebile come la speranza viva in quella terra nera e scura.
Ci racconta dell’amore, questa esplosione solare che ti distrugge la vita e rende abitabili i deserti, della solitudine, del sottile equilibrio tra follia e paura.
Ci narra di donne, nonne e madri coraggiose, di uomini, nonni, padri e pescatori; di fiordi, di un mare che è catene e libertà, di violenza e di speranza.

È un romanzo duro che spinge a guardarci nel doppiofondo poco frequentato dell’anima. A fare i conti con le paure e i ricordi circondati dalla desolazione e dal rumore della nostra mente.
Il finale è doloroso, arriva inaspettato come un pugno sul volto. E ti lascia esanime, affaticato.

Dentro di noi si annidano i demoni, dentro il sangue caldo si nasconde una profonda malvagità, e solo la bellezza può salvare il mondo.

Stefansson scava a fondo nella vita troppo breve e incerta per distogliere lo sguardo e lo fa con la delicatezza di una scrittura prosaica che è un’ala bianca che fende l’oscurità: come quando d’un tratto, intorno a noi, inizia a ballare la signora della notte e ci rammenta l’aurora della vita.

Sì, è proprio così, la bellezza salverà il mondo.

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Perché il bambino cuoce nella polenta | Aglaja Veteranyi

Perché il bambino cuoce nella polenta | Aglaja Veteranyi

Romanzo del 1999, oggi, viene pubblicato da Keller editore con la traduzione di Emanuela Cavallaro.

Un filo sospeso su cui volteggiano libere le parole di Aglaja Veteranyi, nata e cresciuta nel mondo del circo.
Il padre è clown, domatore, appassionato di cinema che gira film amatoriali spendendo un sacco di soldi e usando le donne della sua famiglia come attrici.
La zia legge fondi di caffè e colleziona peluches vinti dai suoi amanti mentre la mamma resta appesa ai suoi capelli volteggiando nel vuoto. Per colmare la paura della nostra piccola protagonista di vederla morire in una delle sue esibizioni, la sorella maggiore le racconta la storia del bambino che cuoce nella polenta che per paura si addormenta nascosto in un sacco di mais che la nonna getta inavvertitamente nell’acqua bollente.

Mentre la favola diviene di volta in volta sempre più cruenta scopriamo che la bambina sa tutto di anelli e acrobazie ma nulla sa dei libri. Eppure lei strappa le pagine dell’enciclopedia e le mastica, così che le parole le restino dentro.
Aglaja ci racconta la Romania, ove le persone non possono pensare liberamente, neanche in sogno e un passato da cui la famiglia cercava di riscattarsi; i nostri averi sono avvolti in carta di giornale dentro una grossa valigia. Collezioniamo cose belle di tutti i paesi per la nostra grande casa. Ci narra di quanto forte scalpiti la nostalgia di casa

Mio padre dice che dell’odore del proprio paese ci si ricorda in qualsiasi posto, ma lo si riconosce solo quando si è lontani

Ogni pagina è come una piccola fiaba che ti trasporta in un mondo surreale, una fiaba scritta attraverso la mano di una bambina e la spontaneità dell’infanzia. Pensieri che ti obbligano a fermarti e a pensare a quel luogo dove gli angeli custodi non sono mai tristi, dice il direttore del circo, esistono proprio per diffondere allegria.

Al surrealismo di queste pagine si fa strada un realismo via via sempre più crudo e netto: quello in cui le due sorelle vengono spedite in un collegio svizzero le cui ferree regole pongono fine a tutti i sogni, a tutte le storie. Senza sentire il battito del cuore della madre, vivere in collegio è come cuocere nella polenta. Ma neanche tornare a vivere con lei sarà la soluzione: i genitori si sono separati, la zia è scappata con un uomo e la sorella confessa di avere avuto un rapporto incestuoso con il padre.

L’autrice ci regala un racconto ricco di emozioni. Affronta con leggerezza e ironia temi come la morte e l’abbandono in una prosa intensa, memorabile e travolgente. Un romanzo sulle proprie radici, sulle cose che portiamo nella nostra valigia e soprattutto, sull’infanzia.
La felicità non è come l’aveva immaginata. E questa fiaba non ha il lieto fine. Dopo aver vissuto una vita diversa da tutte le altre, aver imparato da autodidatta il tedesco, dopo aver scritto su alcune riviste e aver dato alla luce questo romanzo di enorme successo, Aglaja si toglie la vita nel lago di Zurigo nel 2002.

Addormentata come quel bambino in un sacco di mais, Aglaja ci lascia in eredità tutte le esistenze possibili, la fragilità, le paure di una bambina girovaga del mondo.

Dio mangia la polenta per amore dei poveri. Anche lui è uno straniero, che va di paese in paese. È triste perché ha di nuovo un lungo viaggio davanti a sé.

Buon viaggio Aglaja, la tua vita vive in eterno nelle tue parole.

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Follie di Brooklyn | Paul Auster

Follie di Brooklyn | Paul Auster

È il primo romanzo di Auster in cui mi imbatto e posso dire con estrema certezza che non poteva esserci battesimo migliore.

L’incipit è d’impatto “cercavo un posto tranquillo per morire”. La descrizione di Nathan Glass semplice e senza fronzoli: non è stato un marito modello, non è stato un padre modello, ha molto tempo libero e nessuna idea su come riempirlo. È impossibile non fare nulla del proprio tempo. Per farsi una risata, Nathan, ritornato a Brooklyn dopo cinquantasei anni reduce da un divorzio e un cancro, decide di scrivere un libro che raccolga tutti gli aneddoti, i capitomboli e gli imprevisti di cui ha memoria.
Nel frattempo avviene un incontro: rivede Tom, il figlio della sua adorata sorella, dopo lunghissimi anni. Uomo un tempo brillante e dalla carriera promettente, dopo esserci lasciato dietro un lavoro da tassista, adesso lavora nella libreria di Park Slope. È ingrassato e pare non avere alcun obiettivo nella vita. Auster o forse Nathan, che ci racconta in prima persona la storia, ci conduce per mano nella vita di Tom e in quella di Harry, lo strano proprietario della libreria e grazie a quest’ultimo incontreremo Rufus, di lui poche righe ma che credetemi, basteranno a riempirvi gli occhi. Busserà alla porta di Nathan la piccola Lucy, figlia di Aurora, sorella di Tom. Muta, senza verità, storia o passato.
Ci imbatteremo nella BPM, una sconosciuta di cui Tom è innamorato.
Rivivremo il sogno dell’Hotel Esistenza, rifugio utopico dalle delusioni della vita.
E infine, Auster chiuderà il cerchio. Ogni cosa è al suo posto.

Ma cosa fanno questi personaggi?
Vivono, semplicemente, vivono.
È di questo che parla il romanzo: della vita, quella vera, quella che viviamo ogni giorno. Fatta di divorzi, tradimenti, scelte, amicizie, rapporti genitori-figli.
Una trama semplice ma che sentiamo nostra ogni volta che Nathan si rivolge a noi perché sa che siamo lì. È come sentire la voce di una persona reale.

Ciò che apprezzo di Auster è la sua penna ironica. Gioca con le parole e il risultato è uno stile scorrevole e divertente ma, allo stesso tempo, intriso di significato.
Auster divaga e indugia su dettagli che sono importanti per lui e un po’ meno per noi. Almeno in apparenza.

Perché indugio su questi dettagli? Perché la verità della storia sta nei dettagli, e io non ho altra scelta che raccontarla così esattamente come si è svolta.

Questo rende il ritmo lento, ma la lettura non ne risente affatto. Anzi, scorre fluidamente.
Ho apprezzato questo romanzo per la sua schiettezza, per l’ironia, per quei dettagli che fanno la differenza.

Alla fine Nathan ci dice: mai sottovalutare il potere dei libri

E nemmeno quello della vita, rispondo io.

 

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Il Re d’Irlanda | Maurizio Di Primio

Il Re d’Irlanda | Maurizio Di Primio

Anno 1064
Io, Donnchad Mac Brian, figlio di Brian Borumha Mac Cennétig scrivo che nel mio lungo viaggio tutti mi hanno detto che la strada che conduce a Roma e al perdono dell’anima è molto lunga e piena di complicazioni, più di altre strade ugualmente lunghe e difficili […]

Così si apre il prologo del romanzo storico scritto da Maurizio Di Primio che ringrazio per avermene inviato una copia.
In questo libro l’autore ci accompagna per mano in un viaggio lontano nel tempo e nello spazio per raccontarci le gesta del re Brian Boru.

Ci troviamo nell’isola di Smeraldo nell’anno 966 e Brian Boru dopo aver respinto molti invasori e sconfitto i Vichinghi, riunì sotto la sua spada le tribù irlandesi ed esteso i suoi domini sulla terra natale del Munster. Tuttavia il suo scopo era un altro: riunire l’intera isola sotto un unico regno. Facendo ciò si scontrò col supremo sovrano d’Irlanda, Mael Sechnaill mac Domnaill da cui derivarono numerosi conflitti fino a quello di Clontard, 1014, durante il venerdì che precedeva la Pasqua. Le truppe di Brian Boru furono sconfitte e il loro sovrano, l’Augusto di tutto l’Occidente d’Europa, ucciso mentre si trovava nella sua tenda in preghiera.
Fu la più cruenta delle guerre, come ricordato negli Annali del Regno d’Irlanda. Ed è a questo punto che entra in scena il figlio di Brian Boru: Donnchad Mac Brian. Ecco che alla storia si mescola la fantasia e il lettore è trascinato in quegli angoli di cuore poco frequentati.
Donnchad Mac Brian vuole emulare il padre, rendergli onore. È bramoso di gloria e potere. Impugna la spada di suo padre, versa il sangue e incassa duri colpi. Non otterrà ciò che era di suo padre, né il titolo né il regno. Eppure alla fine egli ci dice << sono il più felice tra gli uomini>>.

Non resta che leggere la storia per scoprire perché.
Ho davvero apprezzato il finale che mi ha rubato un sorriso e perché no, mi ha infuso speranza nel cuore.

Maurizio di Primio ha creato il giusto equilibrio tra storia e immaginazione, delineato nei dettagli gli eroi del tempo. È stato come vedere l’Irlanda di un tempo e Brian Boru alzare la sua spada al cielo. Mi sono affezionata a suo figlio immaginandolo anziano su quel lago di Bolsena.
Ho sempre affermato che leggere è un po’ come viaggiare e oggi ho compiuto un bellissimo viaggio.

Grazie Maurizio

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Le sette morti di Evelyn Hardcastle | Stuart Turton

Le sette morti di Evelyn Hardcastle | Stuart Turton

Preparatevi a impazzire, recita la fascetta promozionale. È per questo che ho deciso di acquistare questo libro, sebbene io diffidi dei romanzi conclamati. In realtà la critica si muove su due correnti opposte: chi lo osanna e chi lo distrugge. 
Questo libro effettivamente lo si ama o lo si odia. E sebbene io mi schieri con quelli a favore, non è un romanzo di cui consiglierei spassionatamente la lettura perché, davvero, c’è da impazzire.

Il libro inizia in medias res con il narratore che si sveglia una mattina senza ricordare nulla. Come si chiama? Perché si trova in un bosco? Chi è Anna?  Qualcuno è davvero morto?
Tutti, compresi noi lettori, brancoliamo nel buio per quasi 500 pagine. L’unica cosa che iniziamo a capire è che quest’uomo si trova nella tenuta di Blackhole, ospite degli Hardcastle.
L’uomo sarà costretto a rivivere lo stesso giorno, per otto giorni, nel corpo di diversi individui.
Il motivo?
Scoprire chi ha ucciso Evelyn Hardcastle, la quale viene uccisa sette volte alle 11 di sera. Solo così potrà interrompere il circolo vizioso e liberare se stesso.
Ai lettori viene fornita una mappa della tenuta e delle stanze con i vari ospiti e un elenco dei loro nomi sottoforma di invito. Essi si trovano tutti lì per una festa in onore di Evelyn a 19 anni dall’omicidio del piccolo Hardcastle.

Ne viene fuori un romanzo a dir poco complesso e complicato. Serviranno carta e penna per memorizzare molti eventi, date e personaggi perché la storia non segue un ordine cronologico.  Siamo al quinto giorno e nel capitolo successivo ci risvegliamo nei panni di un altro ed è di nuovo il secondo giorno. Starci dietro ha richiesto molta concentrazione e memoria. Ma lo sforzo non è vano. A piccole dosi veniamo fuori da questo tremendo rompicapo.  Il finale nasconde perfino una morale che non è scontato ritrovare in un thriller.
Manca, purtroppo, l’empatia nei confronti dei personaggi. Il che non mi ha fatto apprezzare fino in fondo il romanzo. Troppi individui, troppe morti perché ci si possa davvero soffermare sulle sofferenze. E c’è un mistero da risolvere lungo 500 pagine. Forse troppo.

Nonostante questo il mio giudizio è positivo. Stuart Turtorn debutta con un libro a dir poco geniale. Come ho anticipato non consiglio vivamente questa lettura se non a coloro che hanno davvero tanta pazienza e sono armati di taccuino e penna. Non resterete comunque delusi.

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Il ciliegio del mio nemico | Ting Kuo Wang

Il ciliegio del mio nemico | Ting Kuo Wang

Il ciliegio del mio nemico è considerato un tesoro della letteratura cinese contemporanea che ci trasporta in uno spazio antico dove un amore è stato perduto.
In un piccolo paese da cui si può udire il rumore del mare, un uomo si trova nella sua caffetteria in eterna attesa del ritorno di sua moglie Qiuzi. Ad aprire la porta sarà invece l’amante della donna, Luo Yiming, ricco banchiere ormai in pensione. La conversazione turberà così tanto i loro animi da condurre l’uomo a gettarsi da una balaustra.
In cerca di risposte, la figlia di Luo varcherà la soglia della caffetteria ritrovandosi ad ascoltare la storia di uomo ambizioso, figlio di un padre che raschiava il pavimento della scuola e che giocava d’azzardo per tirare su i soldi per curare la moglie, una madre malata che cuciva calzini ogni volta che poteva. Ciò che segnerà completamente la vita del nostro protagonista, di cui ignoriamo il nome, sarà l’amore. Un amore che ha il volto di Qiuzi.

<< La sua ingenuità illuminava le zone d’ombra del suo amato e alleggeriva la pesantezza della sua vita>>.
L’amore permeerà le loro fragili esistenze, fino a quando un violento terremoto non creerà crepe incolmabili.

<<Gli anni col tempo sbiadiscono, ma un giorno preciso, se lo si fissa con una traccia scritta, non può sparire e le sensazioni che ci ha evocato prima o poi si risvegliano>>.
Si risvegliano le paure di Qiuzi, la sua fragilità, la sofferenza per la morte della sorella. Grazie a una macchina fotografica vinta per caso, inizia a frequentare i corsi di fotografia a casa di Luoyiming e tra i due nasce una storia d’amore.

<<Il ciliegio non era ancora in fiore quando Qiuzi mi lasciò. Quell’anno perdemmo la primavera>>
Le ferite del nostro protagonista riemergono con prepotenza. Lascia il suo lavoro e apre una caffetteria in un paese sperduto a ridosso del mare, dove spera che la sua Qiuzi faccia un giorno ritorno.

Il ciliegio del mio nemico è il racconto di un amore perduto, di un destino che sopraffa le esistenze. È un libro sui sentimenti, tanto fragili e rari da proseguire una strada diversa da quella che avremmo voluto. La penna delicata e lieve di Ting Kuo Wang ci narra la storia infelice di un uomo solo.
Attraverso le sue pagine ci perdiamo nel labirinto di parole cariche di significato dove il linguaggio ermetico si mescola alle credenze cinesi, all’interpretazione dei sogni e della natura. Non a caso viene rievocato il profumo di tubere che al nostro narratore ricorderà sempre il sorriso della madre quando le sistemava nei vasi.
Il ciliegio che fiorisce nel giardino di Luo Yiming se da un lato rappresenta la giovinezza, rinascita e scoperta per la persona di Qiuzi, dall’altro è la fine della primavera, la fine di un amore e la consapevolezza che non ci si può opporre al destino. Perfino vendicarsi del proprio nemico non ha senso di fronte alla forza prorompente dei sentimenti.
È ormai inverno e Qiuzi non tornerà più.

<< In sogno anniento il mio nemico, accanto al letto fiorisce il ciliegio>>.

 

 

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Anna Karenina | Lev Tolstoj

Anna Karenina | Lev Tolstoj

Se la quarantena ha prodotto qualcosa di buono, una di queste è stato il “tempo di avere tempo”.
Tempo, ad esempio, per dedicarmi a letture più complesse quali “Anna Karenina”. Questo romanzo era sulla mia libreria da molti anni, comprato addirittura quando ancora esisteva la lira. Probabilmente a 12 anni non avrei saputo apprezzarlo quanto oggi.
Non spaventino le quasi 900 pagine del libro, esso è un “mattone musicale”, frutto della genialità di Tolstoj.

Anna Karenina, pubblicato nel 1877, nacque come romanzo d’appendice. Il romanzo, infatti, apparve a puntate sul periodico russo Russkij vestnik nel 1875.

Sfogliamo le prime pagine del romanzo e facciamo la conoscenza di Dar’ja alle prese con la scoperta del tradimento del marito Stepan Arkadevic. Intanto Levin torna dal suo esilio volontario campestre per chiedere la mano del suo unico vero amore: la principessa Kitty, la quale, nel frattempo, sembra pronta a cedere al corteggiamento del giovane e affascinante conte Vronskij. Da Pietroburgo, giunge a Mosca Anna Karenina per tentare di salvare il matrimonio del fratello Stepan. Attorno alla sua esistenza ruoteranno tutte le altre. Ogni vita sarà toccata e stravolta, in piccola o grande misura, da Anna, giovane e affascinante signora del gran mondo, sposa dell’ufficiale governativo Aleksej Karenin e madre di Sereza. Il romanzo prosegue descrivendo l’incontro tra Anna e il conte Vronskij e il sentimento che ne seguirà.

Sarebbe riduttivo considerare l’intera opera come il racconto dello struggente e distruttivo sentimento che lega Anna e il conte Vronskij sullo sfondo di una Mosca troppo ligia alle regole e di una Pietroburgo più libertina, entrambe incorniciate dalla vita di campagna.
La grandezza di questo romanzo risiede nella semplicità con cui viene narrata la complessità dell’animo umano. Tolstoj, infatti, descrive minuziosamente i pensieri e le emozioni, ora di un personaggio, ora dell’altro. Pensieri che cambiano in funzione delle circostanze e dell’evolversi della storia.
La caratterizzazione di ogni personaggio è grandiosa, stratificata. Impossibile non pensare che tutto quello che leggiamo non sia reale.
Il realismo, di cui l’intera opera è permeata, si arricchisce di metafore. Basti pensare alla bufera di neve che investe Anna mentre si trova sul treno, presagio di ciò che sarebbe accaduto; oppure al significato intrinseco della stazione ferroviaria come transitorietà della vita umana o rifugio dalle asprezze della vita.
Non è un caso che Tolstoj si sia lasciato morire proprio nella cara stazione ferroviaria di Astapovo.
Ciò che più sorprende è la ricchezza di dettagli. Mi viene in mente il momento in cui Anna, nella scena finale, è ipnotizzata dal treno e ci vengono descritte con minuzia le rotaie misto ghiaia e carbone, le viti, le bielle e le catene.
Si potrebbe quindi definire prolisso il romanzo di Tolstoj?

No, tutto acquista senso perché ogni cosa è incanalata in una struttura ingegnosa che si riflette nell’opposizione costante di alcuni elementi: città-campagna, Mosca-Pietroburgo, Russia-Europa, società moderna-società patriarcale fino ad arrivare all’opposizione per eccellenza: Levin e Anna o anche vita e  morte. Entrambi sono preda dell’amore nella sua forma più assoluta. Ma mentre Levin, più volte pronto a premere il grilletto, si affanna nella ricerca del senso della vita e di Dio afferma << E io ero alla ricerca di miracoli, mi lamentavo di non vedere un miracolo che mi poteva convincere. E invece eccolo qui, il miracolo, l’unico miracolo possibile, che c’è da sempre, che mi circonda da tutte le parti e non me n’ero mai accorto>> trovando la salvezza proprio nella quotidianità e nell’amore verso gli altri e la natura, Anna, invece, il senso non lo trova. Si lascia sopraffare da questo amore travolgente ma non lo riconosce come salvifico. Incapace di perdonare sé stessa per aver abbandonato suo figlio, Anna scivola lentamente nell’abisso dell’autodistruzione. Il parallelismo tra i due protagonisti, Anna e Levin, ha ragion d’essere proprio in questa pulsione della morte che si confronta con la vita vera, quella che vive sopra ogni cosa

In questa eterna opposizione il romanzo raggiunge l’apice della perfezione.

Non potrei descrivere diversamente questo libro che, a pieno titolo, è tra i grandi classici della letteratura.
Tolstoj ha scritto un capolavoro con un linguaggio fluido che arriva a chiunque, affrontando in 900 pagine temi che un uomo affronta in un’intera vita: amore, perdono, fede, vita, morte.
Sul senso di questo romanzo se ne è tanto discusso, io credo che esso sia tutto raccolto in quel senso di colpa imperdonabile che lacera nel profondo.
Tanto altro avrei potuto aggiungere, e tante altre cose sono state scritte da molti prima di me.
Io ho voluto solo lasciarvi il pensiero di una viaggialettrice che, davanti a un capolavoro della letteratura, nulla può aggiungere se non citare proprio lui, il grande Tolstoj

<<Se volessi dire con un discorso tutto quello che intendevo esprimere con il mio romanzo, dovrei riscrivere da capo lo stesso romanzo che ho scritto>>.

 

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22/11/’63 | Stephen King

22/11/’63 | Stephen King

Mentre leggevo questo romanzo di Stephen King, mi sono venuti in mente IT o Torre Nera. Nulla che mi abbia mai entusiasmata.

Ultimo giorno di lavoro e Renata, amica e collega (anzi, ex collega) mi fa un regalo: un libro la cui copertina è avvolta dal mistero. Incredibile ma vero, è un libro di Stephen King: 22/11/’63.
A corredo, un segnalibro fatto a mano su cui è impressa una citazione del romanzo

<< Quanto durerà Al?>> –
<< Durerà quanto vorrai tu>> disse << tanto sono solo due minuti. Sono sempre due minuti>>

Al è il proprietario di una tavola calda che è il luogo preferito di Jake Epping ma anche il luogo che cela un segreto.  Al lo rivela a Jake in punto di morte, quando ormai il cancro ha divorato ogni alito di vita. Nel retro della tavola calda esiste un passaggio temporale che riporta nel 1958. Non importa quanto tempo ci si soffermi lì, se un mese, un giorno o un’ora. Al ritorno, saranno passati sempre e solo due minuti.
Ma perché Al mostra questo segreto a Jake?
Per portare a termine la missione che lui non potrà concludere: fermare Lee Oswald prima che uccida Kennedy e cambiare il corso della storia.

Questo romanzo è composto da 767 pagine, un titolo che è la data di scadenza dell’intera vicenda e le sue dimensioni mi ricordano un mio vecchio dizionario di spagnolo/inglese. Nonostante questo, me ne sono appassionata poche pagine dopo.  Sono stata in compagnia di George Amberson, alias Jake Epping, per undici giorni nell’America dei primi anni Sessanta.
Il salto temporale è reale: il linguaggio assume le sfumature di allora. Si vive la cortesia degli americani e la finta morale chiusa tra le mura di una camera da letto. Le note che risuonano sono quelle che hanno fatto sognare un Occidente intero. Ma Jake, che vive una storia d’amore che mi ha emozionato come poche, ha una missione da compiere. 
Ce la farà?
Considerato che la vicenda occupa sì e no, un terzo del libro, suppongo non sia questa la domanda a cui l’autore vuol farci rispondere.

Sì, perché la vera domanda è: si può davvero cambiare il passato?

Il passato non vuol essere cambiato e gli avvenimenti vogliono essere lasciati al loro posto. Una singola azione può cambiare il corso della storia. In meglio o in peggio? Lo scoprirà Jake e noi insieme a lui. Insomma, c’è quel famoso effetto farfalla più potente del ruggito di un leone al quale non c’è scampo.

Grazie a una scrittura fluida e il ritmo incalzante, questo libro non annoia mai. Avrei forse preferito un finale più felice, ma parliamo sempre di Stephen King. Non può finire sempre bene.
E se è vero che tante volte ci siamo detti di voler tornare nel passato per cambiare le cose o fare un salto nel futuro per vedere come si sta, io preferisco il mio presente con tutte le sue sorprese.

Del resto: << I viaggi nel tempo esistono. Basta perdersi tra le pagine di un libro>>.

Grazie Renny, senza di te non avrei scoperto la genialità di Stephen King e non avrei fatto un meraviglioso viaggio nell’America degli anni Sessanta.

Buon viaggio nel tempo amici lettori.

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