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I giusti | Jan Brokken

I giusti | Jan Brokken

Tutte le cose importanti cominciano all’improvviso e destano sospetto. A volte ci si ritrova di fronte a una scelta impossibile e per decidere si ha solo una frazione di secondo. Pur non sapendo ancora nulla, si ha il presentimento che da ciò possa dipendere il resto della propria vita (…) Jan Zwartendijk sentì squillare il telefono

All’altro capo del filo c’è il console olandese a Riga, De Decker, il quale spiega a Zwartendijk che l’attuale console di Kaunas verrà sollevato dall’incarico e proprio a lui, dirigente della Philips in Lituania, tocca la nuova nomina consolare. Una nomina ad interim che non deve preoccuparlo. È il 29 maggio 1940 e l’Armato Rossa sta per invadere la Lituania. Qualche giorno dopo Peppy Sternheim Levin e Nathan Gutwirth, entrambi ebrei, bussano alla porta del nuovo console per richiedere un visto di uscita dalla Lituania. Zwartendijk chiede loro di rivolgersi al console di Riga, il quale li rispedisce al console di Kaunas spiegandogli che basta scrivere sui loro passaporti che per entrare a Curaçao – all’epoca possedimento coloniale olandese – non è necessario alcun visto. Zwartendijk, che si fida poco dei russi e ancor meno dei nazisti, non ci pensa due volte. Due semplici righe che cambieranno completamente il corso della storia per migliaia di ebrei.
Sì, perché la voce della non necessarietà di un visto per Curaçao, si sparge in fretta e tanti sono gli ebrei che si rivolgono al console per apporre quella frase sui loro passaporti.
Ma la strada non è così semplice, perché per uscire dalla Lituania occorre attraversare tutta la Russia a bordo della Transiberiana, arrivare a Vladivostok e da lì prendere il traghetto per il Giappone e poi per un’altra meta ancora: Stati Uniti, Australia o chissà dove.
<<Il giro del mondo. Ma valeva la pena provarci>>.
Per attuare ciò, era necessario un visto di transito per il Giappone. Chi aveva quell’importante frase sul passaporto, bussò alla porta del console giapponese Sugihara, il quale, armato d’inchiostro e pennino rilasciò il visto. Senza incontrarsi o parlarsi nemmeno una volta, i due consoli diedero vita a un’operazione di salvataggio dalla portata inimmaginabile. Nemmeno loro avevano idea di quello che stavano facendo. L’unica cosa certa era che conservavano nel cuore la speranza che quelle persone avrebbero potuto salvare le loro vite lontane da un’Europa sconvolta da Hitler e le sue brutalità. Insieme ad altri consoli olandesi come De Jong, Romer e De Voogt, molti saranno gli ebrei che riusciranno a uscire dal Giappone.

Il Talmud dice che in qualunque momento della storia, esistono 36 giusti dalle cui sorti dipende il destino dell’umanità.
Quattro li abbiamo conosciuti tra queste pagine, sebbene Sugihara e Zwartendijk ebbero delle conseguenze a causa dell’operazione messa in atto. Il primo dovette ritirarsi dalla carriera diplomatica e vendere lampadine porta a porta per tirare avanti. In compenso fu l’unico giapponese a essere nominato nello Yad Vashem e l’unico a scoprire cosa accadde agli ebrei che mise in salvo.
Zwartendijk fu umiliato da una reprimenda del governo olandese per non aver rispettato le regole e visse gli ultimi anni della sua vita nel dolore e nella convinzione di aver salvato solo una manciata dei “suoi ebrei”, mandando gli altri a una morte certa.
I figli del console raccontano che quello fu un dolore costante, tant’è che in punto di morte, il console olandese sorrise. Probabilmente perché poteva smettere di arrovellarsi su quel punto.
fu uno dei suoi figli a scoprire tutta la verità e a portare alla luce le gesta del padre che , solo nel 1998, fu riconosciuto Giusto tra le nazione dallo Yad Vashem.

<<In definitiva, secondo i miei calcoli, sono circa 2700 i profughi che dalla Lituania sono arrivati a Shangai. Supponendo che il numero di profughi non registrati sia stato pari a quasi il doppio, la cifra effettiva dovrebbe aggirarsi intorno ai 5000. Nel 1941 circa 4000 profughi ebrei riuscirono a scambiare subito il Giappone con una destinazione finale. Alla fine, grazie al piano di fuga escogitato da Zwartendijk, poterono lasciare la Polonia e la Lituania fra i 9000 e i 10.000 uomini, donne e bambini>>.

Jan Brokken ripercorre la storia dei profughi, cerca risposte, interroga chi è sopravvissuto e scava nella mente dei ricordi di Edith e Robert Zwartendijk per restituirci la memoria tra le pagine di un libro che ha in sé la forza della Storia. Non ci risparmia nulla Brokken. E più di una volta mi sono ritrovata gli occhi pieni di lacrime leggendo di azioni barbare perpetrate in nome di una razza superiore. Sono i momenti in cui ho provato vergogna per l’umanità intera e dolore per quella bambina di 13 anni con i capelli raccolti in due trecce che ha spiccato il volo troppo presto. O per intere famiglie le cui speranze sono state distrutte nonostante quelle righe sul passaporto.
L’autore olandese però ci racconta anche le storie felici di chi ce l’ha fatta, quelle con il lieto fine, commoventi. Quelle che mi hanno fatto piangere ancora sfogliando le pagine di un libro che è un affresco della Storia e delle storie umane.
Non solo dei profughi ebrei, ma di quella di un console olandese che lasciò Kaunas con la coscienza a posto. Che soffrì per aver creduto erroneamente che dal suo gesto eroico, solo quattro persone ebbero slava la vita.

<< Ogni persona è un mondo intero. Chi salva una vita, salva il mondo intero>>.

Chi sopravvisse aveva fretta di cancellare il dolore. Aveva bisogno di tempo, un tempo che per Zwartendijk fu più breve.
Ma nessuno dimenticò l’Angel de Curacao che doveva poter sempre pronunciare il nome della sua famiglia senza vergognarsi.  Nella parte inferiore della sua tomba ci sono dei sassolini, è un’antica tradizione degli ebrei, popolo del deserto, che per proteggere le tombe dalla sabbia, usavano dei sassi. E ogni nomade che passava di lì ne lasciava uno a sua volta. Oggi ogni parente o amico ne lascia uno sulla tomba come segno che non si è dimenticato del defunto.

<<Dietro a ogni sassolino si nasconde un racconto. Tutti quei racconti insieme costituiscono l’enorme costruzione chiamata Storia>>.

Zwartendijk aveva offerto ai profughi un’opportunità di salvezza. Cosa ci fosse dopo, nessuno poteva saperlo. Alcuni trovarono la morte, altri la vita.  Ma tutti conservavano nel cuore una luce di speranza.
La stessa che mi accompagna oggi, che mi fa avere fiducia in quella parte di umanità che non si gira dall’altra parte quando gli si chiede di agire.
e finché esisterà una sola di queste anime, la luce trionferà sulle ombre.

<< Non chiudere la porta. Non voltarti dall’altra parte>>.

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Trilogia di New York | Paul Auster

Trilogia di New York | Paul Auster

Ho già constatato più volte la grandezza di Auster, ma con Trilogia di New York , egli conferma e riafferma la sua statura di scrittore in grado di innovare la letteratura americana attraverso l’uso di temi suggestivi e trascendentali, lontani dai canoni classici. L’intera opera è irrealistica, permeata di invenzioni letterarie e qualche rimasuglio di realtà. 

È facilmente intuibile che ci troviamo di fronte a tre racconti quali “Città di vetro”, ”Fantasmi” e “La stanza chiusa”, scritti tra il 1985 e il 1987.  Seppur separati, possono essere letti come un’unica storia, lo stesso autore dice infatti che
<< In sostanza, ognuna rappresenta un diverso stadio della mia consapevolezza>>.

Perché New York? Perché questa città è il “non luogo”, il posto in cui ci si sente smarriti, è il luogo della solitudine. Un’estensione fino all’infinito del perdersi e ritrovarsi per poi perdersi ancora. Sebbene la grande mela resti un po’ in disparte, la sua presenza è costante, leggera, avvertita appena tra le righe. Ci si perde nella sua grandezza.

Daniel Quinn lo scrittore che vestirà i panni di un detective, Blue detective di professione che finirà per identificarsi nell’uomo su cui sta indagando, l’io-narratore della terza storia, di cui non c’è dato sapere il nome, vivrà la vita di un altro. Ogni protagonista smarrirà sé stesso e con il terzo racconto si assume la massima dissolvenza dell’io in un’incalzante narrazione dai contorni kafkiani. Ogni cosa è avvolta dal mistero, ogni finale sembra privo di senso. Io stessa procedo del tutto smarrita fino all’ultimo racconto, impaurita che forse, stavolta, niente verrà rivelato. Tutto sembra surreale, tranne il taccuino rosso che l’-io narratore riceve dall’amico scomparso. Ecco dunque il cerchio Austeriano che si chiude, quello che ti fa vagare quasi senza meta nella lettura salvo poi renderti conto di essere stata condotta attraverso il filo della magistrale narrazione alla perfetta conclusione. È proprio da questo taccuino che sono state raccontate le prime due storie. Scritte dai protagonisti dei primi due racconti e dall’amico scomparso dell’io narratore della terza storia e che si fa solo portavoce delle medesime.  

<< Tutta la storia si restringe al suo epilogo e se ora quell’epilogo non lo avessi dentro di me, non avrei potuto iniziare questo libro>>.

Vi è un filo conduttore della vicenda: l’indagine. La ricerca costante dell’io in una realtà quasi claustrofobica e dalla quale si vuole fuggire.

<< Vagando senza meta, tutti i luoghi diventavano uguali e non contava più dove ci si trovava. Nelle camminate più riuscite giungeva a non sentirsi in nessun luogo. E alla fine era solo questo che chiedeva alle cose: di non essere in nessun luogo. New York era il nessun luogo che si era costruito attorno, ed era sicuro di non volerlo lasciare mai più>>.

Ritrovo anche qui il tema del linguaggio, nel gioco sapiente di parole tipico di Auster che diventa un tema dominante in Città di vetro con chiari riferimenti alla torre di Babele e la costante ricerca di una lingua nuova che << finalmente dica quello che si deve dire>> perché quella attuale non riesce più a spiegare il mondo circostante.  Questa considerazione ci porta al ruolo dello scrittore, altro tema presente in tutte le opere di Auster. Lo scrittore vive una forma di alienazione personale. È nella scrittura che egli si dà senza tregua distaccandosi dal mondo circostante e vivendo riflesso nelle storie che egli stesso scrive. È per questo motivo che Fanshowe, protagonista de La stanza chiusa, terminato di scrivere tutto quello che aveva da dire si dilegua, senza più altro scopo nella vita.

<< Strappai le pagine del taccuino una a una, le accartocciai e le gettai in un cestino di rifiuti. Giunsi all’ultima pagina mentre il treno si metteva in movimento>>.

Lasciamo quindi che la letteratura resti incompiuta, aperta a ogni nuovo inizio, che si perda fino a perdersi in sé stessa.

Nonostante lo smarrimento iniziale, ho trovato un Paul Auster magnifico, una scrittura lieve e le emozioni che solo i grandi scrittori sanno dare.

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Arabia Felix | T. Hansen

Arabia Felix | T. Hansen

Siamo nel tardo 1700, il periodo dei lumi, quando il re danese Federico V invia una spedizione in Arabia Felix con l’intento di scoprire i costumi delle popolazioni medio orientali, le religioni, la lingua, la storia e la esatta collocazione geografica.
Ne fanno parte l’emerito linguista Von Haven al quale è altresì affidato il compito di cercare antichi manoscritti biblici e decifrare le antiche iscrizioni sul Monte Sinai, ovvero i Dieci Comandamenti,
il naturalista svedese Forsskal, allievo del famoso Linneo, che ha il compito di raccogliere e descrivere tutte le specie vegetali e animali che inconterà,
Baurenfeind il quale dovrà incidere e dipingere ciò che i suoi occhi vedranno,
lo svogliato dottor Kramer e infine Carsten Niebuhr, umile agrimensore della Frisia che sarà colui il quale misurerà le distanze tra le città da lui visitate.

La domanda più importante che tutti si pongono però è perché l’Arabia Felix sia un luogo felice.

Il viaggio è appena iniziato, la nave è salpata dal porto di Copenaghen, Von haven e Forsskal si affrontano, i cinque caratteri emergono con prepotenza e ci vorrà un anno prima che si trovi un equilibrio e le antipatie si affievoliscano.
I paesaggi mutano, siamo nell’Atlantico, poi nello Stretto di Gibilterra, infine nel Canale di Suez luogo dal quale la spedizione giunge ad Alessandria d’Egitto e il vero viaggio può finalmente avere inizio. I membri della spedizione restano sconvolti dinanzi alla maestosità delle piramidi e dalle meraviglie del luogo. Iniziano a vestire come gli arabi, a mangiare i loro cibi, a imparare la loro lingua.

Non basta andare in giro vestiti da Arabi, o parlare arabo. Bisogna anche vivere alla maniera degli Arabi, mangiare il loro cibo, dormire sulle loro stuoie di paglia

Per Von Haven e Niebuhr la missione invece procede verso il Sinai dove l’illustre linguista farà mostra della sua inettitudine risalendo perfino il monte sbagliato.  La mancanza di capacità di adattamento sarà fatale per Von Haven. Di ritorno dalla missione, senza che se ne rendano conto, i due uomini viaggiano insieme alla malaria, malattia letale poco conosciuta dagli europei del tempo.
Dopo quasi due anni di viaggio e svariate vicissitudini, gli esploratori arrivano finalmente in Arabia Felix, l’attuale Yemen.
L’esplorazione dell’Arabia Felix può avere inizio.
Tutto appare come un sogno, il popolo si dimostra accogliente, la natura e il paesaggio lasciano sbalorditi. Forse è per questo che è un luogo felice.
Ma la verità è che la felicità è effimera e in poco tempo anche gli indigeni si dimostrano riluttanti nei loro confronti.
Tra gli scienziati partiti per la spedizione, solo uno farà ritorno a Copenaghen. Si tratta del più umile fra tutti gli uomini, quello che sin da piccolo ha dovuto lottare per la sua vita, per i suoi studi, le sue ambizioni in una piccola città della Fresia. L’unico in grado di adattarsi ai cambiamenti.

sembrava quasi nato per viaggiare in Arabia. Raramente mostrava insofferenza per la mancanza di comodità

Il ritorno di Niebuhr si rivela un viaggio nel viaggio, fatto di passione, emozione e scoperta. Da San’a, devia a Bombay, poi in Persia, Siria, Turchia ed è pura poesia.
Infine passando per Bucarest, Moldavia e Valacchia, l’agronomo fa ritorno in Danimarca. 
Dopo aver scoperto che tanto del materiale inviato è andato perduto o peggio, dimenticato negli archivi, Niebuhr rifiuta ogni onorificenza e si trasferisce a Meldorf come cancelliere. Non smetterà mai di misurare terra e cielo, tornerà nella sua dolce e amara Fresia e qui, cieco e paralizzato, ancora per un’ultima volta vedrà le stelle.
Non è forse questa la felicità?

È questa la vera scoperta di un’intera spedizione verso quello che doveva essere un luogo felice, la cui leggenda si basa su un equivoco, un errore di traduzione. Ma non voglio svelarvi oltre.
Ciò che importa è che nonostante l’arrivo alla meta predestinata, nonostante le scoperte di nuovi paesi, e la continua sete di conoscenza, Caster Niebhurn si sia addormentato felice nelle amate campagne della sua Fresia.
Quanti di noi, ogni giorno, cercano la felicità in una passione, in un amore, andando di luogo in luogo?
Ma la verità è solo una: tutto ciò che cerchiamo fuori, è già dentro di noi.

Perché se la felicità si trovasse anche solo nel paese più lontano e il viaggio per raggiungerlo comportasse i più grandi rischi e potesse essere intrapreso solo a prezzo dei peggiori sacrifici, partiremmo comunque subito. Perché sarebbe in ogni caso più facile raggiungerla là che non nell’unico posto dove si trova davvero, il posto che è più vicino del paese più vicino eppure è più lontano del paese più lontano, perché questo posto non si trova fuori, ma dentro di noi.

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Chiederò perdono ai sogni | S. Chalandon

Chiederò perdono ai sogni | S. Chalandon

Sapete cosa dicono gli alberi quando la scure entra nella foresta? Guardate, il manico è uno di noi!

Tyrone Meehan è proprio quel manico. Lui che è nato a Killybegs, Irlanda del Nord, da un padre che parlava gaelico, la lingua della resistenza
Quando cantava la nostra terra, tutti stavano a testa alta con gli occhi che si riempivano di lacrime. Ancor prima di essere cattivo, mio padre era un poeta irlandese.
Sì perché quando beveva troppo, finiva per picchiare Tyrone e gli parlava in inglese, affinché le cose brutte rimanessero dall’altro lato, nella terra degli inglesi occupanti.
Sì, perché quelli sono gli anni tristi della storia d’Irlanda. Delle lotte per l’indipedenza dai britannici. Del sangue versato e delle morti piante prima di un accordo di pace che facesse comodo all’una e all’altra parte. E da albero tra gli alberi che imbraccia pistole, che si fa anni di carcere in nome della libertà che combatte con e per l’IRA, Tyrone diviene il manico della scure. Perché può accadere che anche in un idealista forte e convinto, ci sia una debolezza alla quale il nemico si attacca per sferrare il suo colpo vincente.

Allora Tyrone sarà il TRADITORE di un intero popolo che, prima ancora di essere una nazione, conserva la sua identità culturale.  Combatte Tyrone, combatte contro sé stesso, contro i suoi sensi di colpa contro l’IRA contro i Brits (così come gli irlandesi chiamavano i britannici), contro i suoi stessi ideali.

Cosa resta di tutta questa lotta?
Cosa rimane di Denis Donaldson, amico di Chalandon e suo corrispondente da Belfast?
Rimane un uomo che senza timori racconta del suo tradimento aggrappato all’amore per la sua Shelly e per il suo ometto, mentre aspetta che la morte venga a prenderlo nella casa natale di Killybegs. Lì dove tutto era iniziato.
È proprio la sua storia quella che leggeremo tra queste pagine che viaggiano tra passato e presente attraverso la voce di Tyrone, compagno e poi traditore. Nessuna esistenza viene risparmiata dalla lotta, nè può rimanere indifferente a sé stessa. Bisogna fare i conti con le proprie scelte, con le proprie mani macchiate di sangue, con i propri corpi nudi ridotti all’umiliazione e privati delle libertà. Bisogna fare i conti con la guerra e con la pace, sia essa esterna o interiore.

Mai più la guerra, e la pace per sempre. E io, in un cono d’ombra, senza neanche l’uniforme, senza medaglia, senza amici, senza urrà. Io in piedi in mezzo al mio popolo, sconosciuto, anonimo. Io che avrò fatto tutto questo, tutto. Che potrò finalmente chiedere perdono a Danny Finley, a Jim O’Leary, e chiedere perdono ai miei sogni.

Termina così uno spaccato della storia irlandese troppo spesso sconosciuta e dimenticata. Una lotta che rivive nella sfera privata di Tyrone/Denis al quale Chalandon dà voce, non per assolverlo, né per giudicarlo, ma per comprendere quell’anima la cui unica colpa è stata quella di essere legato ai propri sogni.

Chiederò perdono ai sogni è un romanzo potente che ti si attacca addosso come una seconda pelle.
Non si resta indifferenti davanti alle sofferenze di un popolo che chiedeva la sua libertà.
Chalandon trascende il concetto stesso di bene e male, non ci sono vinti e vincitori in questo libro.
Non ci sono eroi né colpevoli da assolvere.
Ci sono solo pagine che raccontano una guerra cieca a cui non importa della bandiera che porti,
essa ti seppellisce senza voltarsi indietro.

Chalandon è sempre un battito di cuore, di quelli irregolari. Le sue parole te le porti addosso e i tuoi occhi sul mondo non saranno più gli stessi.
Un romanzo forte, intenso. La voce di quei sogni infranti

Quei rimorsi a scossoni che fanno a pezzi i sogni.

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La quarta parete | S. Chalandon

La quarta parete | S. Chalandon

Ci troviamo a Parigi, luogo delle contestazioni studentesche del ’68. Georges si trova tra le file della sinistra, sostenitore delle cause che infervorano i giovani, in lotta per la liberazione della Palestina. È alla Sorbona che conosce il regista greco, rifugiato a Parigi perché oppositore del regime dei colonnelli, Samuel Akounis. Grazie all’amicizia con quest’ultimo, Georges impara che alle spranghe di ferro ci si può opporre col teatro. È il momento in cui legge l’Antigone di Jean Anohuil che si ispira a quella di Sofocle, riadattata però al contesto in cui l’autore si trovava: una Parigi occupata dai nazisti. 

Ed è proprio questa l’opera che Samuel vuole rappresentare in un cinema diroccato sulla linea di confine a Beirut.  Perché proprio a Beirut? Perché desidera due ore e mezza di tregua dalle lotte civili. Opporre alla guerra la cultura, aprire un dialogo tra le fazioni. Sì perché gli attori sono stati scelti tra la gente del luogo a rappresentanza di tutte le fazioni: Antigone è palestinese, Emone è druso, Creonte è un cristiano maronita, le guardie sono sciite.
Nel gergo teatrale la “quarta parete” è ciò che divide gli attori dagli spettatori, un muro immaginario che gli attori costruiscono attorno a loro per rafforzare l’illusione. Nel romanzo invece, diviene la parete da abbattere per unire tutti in una rappresentazione teatrale che attinge alla realtà e alla speranza: abbattere le differenze tra le fazioni religiose e politiche per opporre alle scene della morte, le scene della vita.

Ma Samuel si ammala e dovrà chiedere a Georges di realizzare il suo sogno, il quale ormai sposato e con una figlia di 3 anni, lontano ormai dalle lotte, non può tirarsi indietro.
Volerà a Beirut e metterà in scena quell’Antigone che gli aveva cambiato la vita.

Ma un conto sono le lotte studentesche, seppur contornate di spranghe e lacrimogeni, un altro è la guerra, quella vera. Quella fatta di palazzi crivellati di colpi, cecchini pronti a sparare se qualcuno supera la linea di confine, quella fatta di povertà, paura e distruzione.  La guerra in Libano, che tocca l’occidente solo tramite tv, arriva adesso diretta come un tonfo al cuore e Georges ne rimane sconvolto. È un mondo che sconvolge e fa vacillare ogni certezza. Tutto ciò che sembra normale da questa parte di mondo, viene rivalutato e allora viene spontaneo pensare a come si possa reagire davanti a una realtà che annienta. La stessa che Georges vede davanti ai suoi occhi, la stessa che Charandon ha potuto osservare nella veste di reporter.

Nonostante lo scenario difficile e sempre a contatto con la morte, Georges tiene in piedi il sogno di Samuel e continua a lavorare costantemente al progetto. Riesce a incontrare i ragazzi, riunendo sotto lo stesso tetto sciiti, cristiani, musulmani, drusi e palestinesi. Entra con delicatezza nelle loro vite, li conosce, li apprezza, fa per loro, per quel sogno comune, cose che non si sarebbe mai aspettato. Li stima per tutto quel coraggio e quella voglia di andare in scena e mettere a tacere bombe e kalashnikov, anche fosse solo per dure ore. Tutte le fazioni hanno accettato di spegnere il fuoco della battaglia per la prova generale. Giunge il momento di rivedersi tutti, tutto è pronto. Gli attori sono in scena e Georges interpreta il Coro.

Sono l’unico a rompere la quarta parete. L’unico ad accettare la finzione del mio ruolo. L’unico a spezzare l’illusione. Lo spettatore mi vede, l’attore m’ignora. Sono sul palco, ma al margine”. Il silenzio viene interrotto e tutto è ridotto in cenere. Perfino la quarta parete si sgretola di fronte a un Antigone violata e poi uccisa, a un Edemone torturato e trucidato, davanti a una bambina con la gonnellina che giace per terra in una pozza di sangue.

Nelle parole di Chalandon risuona l’eco del massacro nei campi di Sabra e Chatila il 18 settembre 1982, dove uomini donne e bambini furono massacrati a opera dei falangisti in un atto definito dalle nazioni Unite “un genocidio”.

Morti uguali, tutti stecchiti, inutili, marciti.  E quelli che ancora vivono cominceranno dolcemente a dimenticarli e a confondere i loro nomi.

Cosa resta di quel sogno di pace? Nulla.
Se non la fievole speranza che dalla cultura si levi la memoria di un passato inglorioso e buio che smentisca la realtà attraverso una quarta parete che non divida, che non illuda, ma che pretenda a voce alta: PACE.

Un suono che arrivi fino all’ultimo posto dell’ultima fila di noi, spettatori e attori di questo mondo.

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Nessuna complicazione sentimentale | M. Locatelli

Nessuna complicazione sentimentale | M. Locatelli

Alida ha trentun anni e lavora per una prestigiosa agenzia pubblicitaria.
Un mondo difficile dove le donne sono poco solidali tra loro e come se non bastasse, gli uomini, in quanto tali, si credono di gran lunga superiori al gentil sesso.
Insomma, bisogna sempre stare all’erta. Per fortuna c’è Serena che si rivela un vero toccasana in un ambiente terrificante.
Fuori, la vita di Ali non va meglio.
Si muove nel mondo portandosi addosso gli strascichi di due genitori che non ci sono più. Sofferente all’abbandono, non supera la fine della sua storia con Demo, il suo supereroe.
Sono passati molti anni da quando lui se ne è andato senza dire una parola e Ali continua a evitare l’amore lasciandosi andare a frequentazioni effimere.
Qualcosa cambia quando incontra un intrigante cliente, Lorenzo.
E tanto più Ali va a fondo di questa relazione, tanto meno è convinta di continuare.
Vane risultano le parole delle sue amiche. A risuonare, invece, sono quelle del nonno: guarda da un’altra prospettiva.
Ed è durante una vacanza in Sardegna, vedendo quell’aitante uomo nel suo mondo fatto di ragazze senza cervello e tante apparenze, che decide di prendersi una pausa volando in America dalla famiglia paterna per trascorrervi l’estate. Il volo di ritorno verrà dirottato a Barcellona e qui accadrà l’impensabile per un finale davvero inaspettato.

Con un linguaggio che scorre fluido come un sorso di barolo accompagnato da una dose sapiente di ironia, Mara Locatelli, ci dà un assaggio della realtà così com’è: imprevedibile e burrascosa.  
Un libro che con leggerezza ci invita a riflettere su ciò che davvero conta.
A lasciare da parte rabbia e orgoglio e ricordarci di vivere ogni singolo momento con tutta l’intensità che esso richiede. E che l’amore, nonostante tutto, è una bella cosa.

Io mi sono affezionata a Alida, un po’ tutte noi, splendide trentenni incasinate, sensibili e con la corazza per non farci troppo male. Ho amato i lunedì sera con le amiche, ed è stato come essere anche io tra di loro a raccontarci di amori, timori e colleghi folli.
Ecco, ho voluto bene a tutte queste donne, sempre fedeli a sé stesse in una Milano dai contorni colorati.
E forse proprio per questo ho faticato a lasciarle andare.

Ma si sa, anche le cose belle finiscono.

Ringrazio Mara Locatelli per avermi dato la possibilità di leggere il suo splendido libro.

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La forma del silenzio | S. Corbetta

La forma del silenzio | S. Corbetta

Leo ha sei anni e fin dalla nascita è affetto da sordità bilaterale. Per lui il linguaggio ha la forma dei movimenti delle mani dei genitori e della sorella Anna.
È il 1964 e Leo inizia la scuola lontano dalla sua famiglia, in un istituto, il Tarra, in cui la Lingua dei Segni non è autorizzata e i bambini sono costretti a esprimersi con le parole.
Tutto diviene incomprensibile e una sera d’inverno, mentre Leo si trova al Tarra, scompare. Il silenzio che si lascia dietro è assordante. Nessuno sa dove si trovi e le ricerche risultano vane.
Diciannove anni dopo, Anna è diventata un’insegnante della lingua dei segni, un modo per restare legata a Leo e fare quello che nessuno ha fatto per lui. Un giorno, nel suo studio, arriva Michele che col movimento delle mani e senza emettere alcun suono le dice che Leo è stato portato via da un uomo: Giordano.
La perdita del fratellino si affaccia prepotentemente nella vita di Anna alla quale non resta che scoprire cosa accadde davvero quella notte di diciannove anni fa.

Pagina dopo pagina, si entra in punta di piedi nel dolore di una famiglia che cerca di sopravvivere a un’assenza logorante. Un’assenza di suoni più forte delle parole che lacera quei ricordi in cui Leo era ancora lì, tra le campagne di Lodi, a disegnare il suo silenzio.
In un ritmo lento, sfioriamo la vita di Anna quando, ragazzina, era il pilastro del suo fratellino. Carezziamo quei momenti di delicata intimità tra due fratelli che sono l’uno parte dell’altra. Stringiamo la mano di Anna mentre con la sua ostinazione va alla ricerca di una verità che la condurrà a un’altra grande scoperta: sé stessa. Perché a volte, dal baratro in cui siamo sprofondati, ci si può rialzare e risvegliare vestiti di nuova luce.

Stefano Corbetta ha la straordinaria capacità di raccontarci il mondo attraverso il silenzio, mettendosi dalla parte di quei protagonisti silenziosi della vita che sono le persone fragili.
La forma del silenzio è quella dei fiori disegnati da Leo sulla parete di casa per dire ti voglio bene.  È quella delle pentole e dei ricordi impolverati di mamma Elsa per non crollare sotto il peso del dolore, o quello della fragilità di papà Vittorio. Il silenzio ha anche la forma dei vasi e dell’arte di Giordano e quella delle mani di Anna dalle quali fioriscono parole e amore.

<< […] alzò le mani e incrociò gli indici, imprimendo nell’aria due sigilli, gli occhi di Teddy, due X che Elsa aveva cucito con del filo marrone, e subito dopo abbassò le braccia e se le strinse intorno alle spalle dondolandosi appena, un’espressione tenera e la testa inclinata da un lato. Il viso di Leo si aprì in un sorriso che Anna non gli aveva mai visto prima. Teddy era comparso davanti ai suoi occhi in una forma nuova […]>>

Un libro delicato, un romanzo che dà voce al silenzio e che denuncia una legge che bandiva la Lingua dei Segni (LIS) dalle istituzioni pubbliche. Una prosa semplice e carica di poesia che ci ricorda che esiste anche ciò che non vediamo o sentiamo.

Un libro di cui consiglio vivamente la lettura per porgere l’orecchio a quel silenzio che può essere buio come la notte e che ci porti ad accendere una luce attraverso la quale ritrovarci.

<< E capì di esistere solo in funzione della luce. Senza luce, Leo non era niente>>.

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Resto qui | Marco Balzano

Resto qui | Marco Balzano

Curon è un paesino adagiato alle pendici delle Alpi. Un luogo ove il silenzio sovrasta il suono e dove la storia sembra non arrivare mai. È proprio qui, in questo posto lontano dal tempo, che si leva la voce di Trina, suono d’amore materno, eco di chi resta.

Non ti racconterò la tua assenza […] No, non meriti di sapere quanto abbiamo gridato il tuo nome. Quante volte ci siamo illusi di essere sulla strada giusta.  È una storia che non ha ragione di riaccadere nelle parole.
Ti racconterò invece della vita di noi, del nostro essere sopravvissuti. Ti dirò quello che è successo qui a Curon. Nel paese che non c’è più.

La voce di Trina ci racconta della sua giovinezza, dell’amore spiato da dietro una finestra e finalmente suo per sempre. Ci parla delle sue care amiche e del suo amore per l’insegnamento. Ci racconta Di suo figlio Michael e sua figlia. Una storia che si mescola alla Storia.
Sono gli anni del fascismo, un fascismo che spazza via le identità, la madrelingua tedesca. Vietato parlare in tedesco e perfino insegnarlo. Via le insegne, tutto viene ribattezzato in una lingua nuova: l’italiano, l’unico idioma che si possa utilizzare. Vietato anche protestare contro chi ti ha strappato via pezzi di te. 
Poi, sono gli anni del nazismo che ridà gloria al tedesco e che inasprisce gli animi di una popolazione, adesso divisa tra chi si fida del Reich e delle sue promesse di libertà, e chi invece si tiene ben saldo alle proprie radici, restii al mito nazista. E proprio Hitler sarà una salvezza illusoria ben progettata.
Erich prima e Michael dopo, si arruoleranno tra le fila dell’esercito tedesco mentre la figlia di Trina scappa in una notte senza luna, succube del fascino del Reich.

Un Erich ferito farà ritorno a casa per poi disertare. Basta con le guerre che non possono portare pace ma solo sangue e disperazione. Inizia così la fuga dei due sposi tra le montagne, facendosi strada tra coraggio e sopravvivenza.
Quando finalmente la guerra giunge al termine, il silenzio delle montagne, che da sempre proteggono Curon, viene sovrastato dal rumore incessante delle macchine che lavorano per la realizzazione di una diga pronta a sommergere il paese.  
Allora a Trina resteranno solo le sue parole come scudo verso quel piccolo mondo fatto esplodere a suon di tritolo e di cui si fa testimone quel campanile sul lago che porta con sé le ferite di un intero paese che non esiste più.

Attraverso una scrittura evocativa e delicata, Balzano ci regala un pezzo di Storia italiana troppo spesso dimenticata.
Si eleva la voce di Trina, più forte della guerra, più forte degli addii, degli abbandoni, più forte perfino del silenzio interrotto dal rumore delle macchine. Si alza questa voce in italiano, in tedesco. Perché le lingue non diventino muri ma ponti per comunicare.
Una storia nella Storia che racconta più storie. Perdonare il gioco di parole, ma quell’eco di madre, di donna e di combattente è la voce di tutte quelle persone che hanno sopportato guerra, oppressioni e morti.

RESTO QUI è una scelta consapevole e coraggiosa di aggrapparsi con forza alle proprie radici.  Un memento per chi, in silenzio, ha guardato da un’altra parte e si è inginocchiato ai giochi di potere.
Allora, tra un click e un selfie davanti al campanile, fermiamoci e ricordiamoci che sul fondo di quelle acque tranquille, giacciono storie sommerse: le voci di Curon, il paese che non c’è più.

Se per te questo posto ha un significato, se le strade e le montagne ti appartengono, non devi avere paura di restare.

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