Pubblicati da Cristina

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Venezia | Cees Nooteboom

Venezia | Cees Nooteboom

Venezia: il leone, la città e l’acqua

Non un libro, non una guida, ma una dichiarazione d’amore a Venezia.
Ci si perde in queste pagine, così come vien voglia di perdersi nei vicoli della città.
Cees Nooteboom è stato ed è un viaggiatore.
Non un turista, ma uno che nelle città ci entra fino in fondo, le scruta, le conosce e, infine, ne scrive.

E quindi, per forza, ti vien voglia di immergerti nelle sue parole. Perché le pagine sono pura bellezza.
Un quadro che si tinge di storia e man mano sfuma in versi antichi scritti da chi, a Venezia, c’è stato almeno
una volta (Mi viene in mente Proust, Byron, Casanova, Goldoni).

Ho immaginato Cees, seduto al tavolino di un bar a osservare la vita veneziana che gli scorreva davanti.
Mentre si immaginava a percorrere ogni calle con la sicurezza di un veneziano.
Perché lui, Venezia, vorrebbe viverla senza l’invasione dei turisti.

È per questo che ama la sera, quando sembra che << la città si sollevi un po’ sull’acqua, come un traghetto quando sbarca>>. Perché è quella l’ora
in cui van via i turisti e chi ci lavora e la città torna a essere dei veneziani.

Questo libro è una metafora del viaggio. Dà vita a coloro i quali hanno calpestato le strade, facendo la
storia. Omaggia la bellezza e l’atmosfera surreale di una città che non stanca mai gli occhi.
È come se il tempo si fermasse e si udisse solo il dondolio delle gondole che scivolano sull’acqua.
I passi di chi, nella notte, è pronto a girare la chiave nella serratura di casa.
È fermarsi e lasciarsi sommergere dalla bellezza di una città che si rialza quando l’acqua è troppo alta.

Cees Nooteboom è un viaggiatore, poeta, osservatore di quei dettagli cui non badiamo più.
Ti ricorda cosa sia il viaggio, chi sia il viaggiatore e quale sia l’occhio che tutti noi dovemmo avere sul
mondo.
Perché la bellezza non è solo a Venezia, ma in ogni parte del globo.
Bisogna solo sedersi a un tavolino del bar, fermarsi, respirare ed essere pronti.

Ho chiuso questo libro con la certezza che quando tornerò a Venezia, sarà di nuovo, come fosse la prima
volta.

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Il libraio di Venezia | Giovanni Montanaro

Il libraio di Venezia | Giovanni Montanaro

Venezia, la dama.
Bella, di quella bellezza che non ti stanchi mai di guardare, ancora e ancora.

C’è il suo cielo azzurro e l’odore del mare. L’assenza di auto e il chiacchiericcio della gente.
Le calle in cui perdersi. 

<< La libreria di San Giacomo è di due sole stanze, ma ci si può perdere come nel labirinto di Minosse. Sopra robusti scaffali di legno scuro, milioni di parole si rincorrono tra le pareti come pesci nell’oceano>>.

Vittorio, proprietario della Mobi Dick, si prende cura della sua libreria. Carezza ogni libro come fosse un bambino. Ama gli incipit, le parole, la poesia.
Ma poi ama anche Sofia, un amore che nasce piano sullo sfondo di quell’acqua che si alza sempre di più. Troppo.

Rosalba, una anziana signora, vede tutto dalla finestra del suo appartamento. È lei la nostra voce.

Giovanni Montanaro la nostra penna. Quella che abilmente ci narra della tragedia che colpì Venezia il 12 novembre 2019, piegandola sotto 189 cm di acqua.
È l’apocalisse. I negozi al piano terra nulla hanno potuto contro la prepotenza della natura.

I libri galleggiano. Si disperdono come anime vaganti nelle tenebre.

Ma la gente non si arrende.
Montanaro ci regala una storia di solidarietà e collettività.

La gente, INSIEME, dà una mano.
Chi sistema impianti elettrici,
chi aiuta a lavare via il fango, un po’ come le nostre colpe
Chi dà nuova vita ai libri comprandoli, nonostante siano illeggibili.
Perché, insomma, il sapere non può morire.
Non può infangarsi.

Così si stringono forti le mani de “Gli angeli del fango” ricordandoci che anche dal fango può emergere la forza.

Il libraio di Venezia è un libro che dà speranza, un fascio di luce su una città che da sempre fa i conti con l’acqua, che si muove sull’acqua.

E ci ricorda quanto preziosi siano le storie custodite in ogni volume.

Tant’è che alla fine del libro troverete le mappe per le librerie più belle di Venezia.

Non resta che segnarle tutte e prepararsi per un tour letterario in una delle città più belle del mondo.  

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Ballando nel silenzio | Darinka Montico

Ballando nel silenzio | Darinka Montico

Buongiorno viaggialettori!

Esce proprio oggi Ballando nel silenzio di Darinka Montico, edito Altrevoci editore. Grazie al blog tour ho avuto la possibilità di leggerlo in anteprima. Pronti a partire con me in questo viaggio che ci porterà in Indonesia?

Il covid si è appena diffuso e la Farnesina invita tutti gli italiani che si trovano all’estero e rientrare in Italia. La pandemia è in corso e il lockdown è appena iniziato.

Darinka però decide di restare.

Restare fuori da un sistema in cui non si riconosce più

Restare lontana da casa e dalle persone che ama per chissà quanto tempo

Restare a Bali insieme alla gente del luogo, dare una mano, a modo suo, a un paese che l’ha accolta.

Quando ha preso questa decisione, probabilmente nemmeno lei era consapevole di ciò che l’avrebbe attesa.
E non esiste giusto o sbagliato, ma solo la libertà di scegliere e il coraggio di rimanere.

Le prime pagine si aprono sul Nyepi, il primo giorno dell’anno che in Indonesia viene festeggiato stando a casa, in silenzio, senza consumare nulla, nemmeno l’elettricità.
Ed è cosi che Darinka ha immaginato il mondo, come un lungo Nyepi in cui fermarsi e riflettere.  

Facciamo un tuffo nella sua vita, nei suoi affetti: come la zia, quella forte e coraggiosa che non si è abbattuta alla prima difficoltà e in Indonesia ha ricominciato la sua seconda vita. Apprendiamo di quella volta che l’Ayahuasca aiutò Darinka a trovare una via che poi la portò in Indonesia, e più precisamente a Ubud, “L’agenzia di viaggio interiore”. 

Un tentativo per imparare a accettare sé stessa e la sua femminilità. 

Partecipiamo a lezioni di yoga, seguiamo Darinka barcamenarsi tra convinzioni errate, scetticismo, fede. 

La vediamo ripetere gli errori come uno schema prefissato, affezionarsi a un uomo sbagliato, piangere e infine, forse grazie a quelle lacrime, pulire lo sporco e finalmente “Vedere”

Vedere la madre per ciò che è, perdonarla e soprattutto perdonarsi.
Lasciare andare le persone malate, quelle che non fanno bene. Riscoprire un padre e accettare anche lui coi suoi errori e i suoi difetti.

“Avere coraggio”. Quello per guardarsi dentro, accettare gli errori, spezzarsi e ricostruirsi. 

“Cambiare prospettiva”, abbandonare concetti o preconcetti e affidarsi al nuovo, al diverso. 

Comprendere che non tutto può essere catalogato, altrimenti “saremmo nati a forma di cubo, o parallelepipedo. Chiudere la gente in precise definizioni ci toglie la possibilità di esplorare cosa ci sia tra quegli angoli inventati e l’infinito”. 

“Andare Oltre”
Un po’ quello che tutti noi dovremmo imparare a fare. 
Andare oltre le righe, oltre le azioni, oltre le definizioni. 

Oltre il proprio corpo per scoprire la propria anima, la propria essenza. E così, nudi, imparare ad amarci.

Già, l’amore. Quello dato e ricevuto. Amore verso sé stessi e verso la vita.

E insieme a Darinka impariamo la “riconciliazione”. Essenziale per poter proseguire il cammino. 
E se lei sia riuscita in tutto ciò, sta a voi scoprirlo. 

Ed eccola l’ultima parola che mi viene in mente mentre scrivo la fine di questa mia recensione.

“Libertà”. Quella semplice e naturale che risiede nella capacità di ESSERE, qui e ora. Non ieri, non domani, ma ORA. In quell’adesso che troppe volte ci sfugge veloce.

 

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Trieste sottosopra | M. Covacich

Trieste sottosopra | M. Covacich

Racconti in valigia nasce perché porto con me libri ambientati nelle città che visito. Ebbene, non poteva mancare un libriccino su Trieste. La scelta era più vasta di quanto mi aspettassi, ma alla fine ho scelto lui: Trieste sottosopra, di Mauro Covacich.

Accanto alla Trieste austroungarica è sempre esistita un’altra Trieste. Accanto alla città dei caffè letterari, della composta amicizia di Svevo e Joyce, c’è sempre stata un’altra città morbida, disinvolta, picaresca, dai connotati quasi carioca.

L’autore ci racconta una Trieste svestendola dei suoi clichè. Conservatrice dell’eredità asburgica, non è solo la Sissi dai vestiti lunghi e barocchi, ma una Sissi col piercing e ombelico scoperto. Ed è anche la Sissa, incontro di premi nobel della fisica, matematica e neuroscienza.
 Covacich se la prende con una città che regala la sua “letterarietà” attraverso le statue mute di Joyce, Saba e Svevo solo per rispondere alle esigenze del turismo. E lo fa regalandoci una passeggiata sulle orme di Zeno per approdare, lentamente e con un sorriso, al Molo Audace, regalandoci la più bella cartolina della città.

ll bello del Molo Audace consiste in ciò che ci si lascia alle spalle, in quel modo strano di allontanarsi perpendicolari al fronte della città. … Trieste vista da fuori, dal largo, vista da una nave di cemento.

Questo libro è una passeggiata tra le vie delle città, è perdersi nei suoi luoghi caratteristici, è ordinare un goccia in b e un nero in osteria.
È immaginarsi il castello di Miramare che è “come lo disegneremmo se avessimo dieci anni e ci chiedessero di disegnare un castello: bianchissimo, intatto, medievaleggiante”.

È scoprire che la Bora non è un semplice vento, non è nemmeno quel vento fastidioso. No, la Bora è una benedizione, è un momento gioviale per una nonna che affacciata alla finestra “si sistemava bella cuccia – il cuscino dietro la schiena, una moka da sei accanto – e si pregustava lo spettacolo. Quando la gente scendeva dall’autobus lei si sbellicava dalle risate. C’era quello che abbracciava il lampione, quello che si piegava a quattro zampe “.

È bere uno spritz nella terra in cui lo spritz è nato. Sedersi, magari lungo canal grande e ordinarne uno e Vi porteranno un bicchiere da un quarto, metà vino bianco e metà selz (spritzen in tedesco significa sprizzare), una bevanda nata al tempo degli austriaci per dissetare senza ubriacare, che mantiene in sé e ripropone ancora una volta l’identità autenticamente spuria – l’umore vinoso e il cervello frizzante – di Trieste. Come tutte le cose vincenti esportate altrove, lo spritz ha subito mille variazioni sul tema – a Udine lo bevono con il limone, i veneti con il Campari o l’Aperol – ma voi, mi raccomando, diffidate delle imitazioni.

È riflettere su un triste spaccato di storia che nella Risiera di San Sabba e Basovizza mostra la sua più brutta cicatrice. Entrambi lì a ricordarci che la paura genera mostri e i mostri diffondono morte. Che sia vestita di antisemitismo o slavofobia, senza differenza alcuna.

Quando parliamo della gaiezza dei triestini, della loro esuberante gioia di vivere, dobbiamo sempre ricordare la Risiera e Basovizza, dobbiamo ricordare che è gente cresciuta in un posto zeppo di rabbia, dolore e morte. Insomma, non è solo con lo spirito aperto del mare che si spiega la volontà di godersi le cose della vita, ma anche con una sottile, inconsapevole angoscia, l’insopprimibile desiderio di superare e rimuovere.

E forse sta proprio in questa frase, cucita su Trieste, che risiede il fulcro di un’esistenza intera, dal Pacifico all’Adriatico.

Trieste sottosopra è semplicemente Trieste. La città che si affaccia sul mare, che vive di mare ogni anno per tutto l’anno. Che va a fare il bagno a Barcola, e al Pedocin osserva divertita le sciure giocare a carte divise da un muro dalla zona per soli uomini. È l’anima di Joyce e la libreria antiquaria di Saba. È la contraddittorietà attraverso la quale passa la sua identità.
Bisogna visitarla questa città sottosopra spettinata dal vento e dalla storia.
Arrivare al cimitero di Sant’Anna, cercare la tomba di nonna Luisa che i ragazzi di là del muro, con tutto quel gran correre e sbraitare, non lasciano mai sola per ricordarci che vita e morte convivono l’una accanto all’altra, almeno a Trieste: la città più meridionale dell’Europa del Nord.

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Madame Bovary | Gustave Flaubert

Madame Bovary | Gustave Flaubert

Precursore del romanzo moderno e maestro del realismo, Flaubert nei suoi libri ci parla di personaggi che osservando la loro vita, la trovano deludente. Un’esperienza dal sapore amaro e fallimentare. Temi che ritroviamo nel libro di cui sto per parlarvi.

 Ispiratosi a un fatto di cronaca, Flaubert dà vita a Madame Bovary, moglie di un medico di provincia cresciuta con l’ideale romantico letto nei suoi libri fatti di intrighi amorosi, addii, ricongiungimenti passionali, feste a palazzo e cavalli bianchi.

Costretta all’ottusità di un marito incapace di comprendere le sue stranezze e non potendosi accontentare di vivere solo astrattamente queste sue passioni, Madame Bovary intreccia due relazioni amorose che finiscono per rivelarsi solo squallidi piaceri.

Impossibilitata ad appagare i propri desideri, travolta dai suoi stessi capricci, dal delirio romanzesco di cui ha bisogno di nutrirsi, incapace di prendersi cura di sua figlia e promessa per l’eternità a Charles Bovary, troppo semplice e debole per la sua personalità capricciosa, a Emma resta solo una cosa da fare, divenendo l’eroina della passione struggente letta nei suoi libri.

Flaubert ci accompagna col suo stile capace di descrivere quasi cinematograficamente ciò di cui racconta. È così che vediamo le casette di pietra dal tetto basso, le strade sterrate, i borghi medievali. I grandi palazzi di città, la meravigliosa e lucente Parigi. Dietro queste meraviglie paesaggistiche si cela l’accurata descrizione dei personaggi.

Sarà difficile provare simpatia per il debole, bonaccione e apatico Charles Bovary sempre arrendevole di fronte ai capricci della moglie. Sebbene io, alla fine della lettura, abbia provato un po’ d’affetto nei confronti di quest’ uomo ignaro della realtà che si celava sotto i suoi occhi, rimasto solo, con il suo dolore, su una vecchia panchina.

Lo stesso non posso dire di Emma Bovary, una donna profondamente egoista, che vive insoddisfatta la sua vita, anelante di chissà quali grandi avventure e per la quale non sono mai riuscita a trovare un pensiero d’affetto.

Il cinismo di Flaubert non risparmia nemmeno i personaggi secondari, dipingendo un impietoso ritratto di un genere umano verso cui lo stesso scrittore nutre profonda sfiducia.
Ognuno di essi rappresenta la società francese di campagna fatta di uomini deboli, egoisti e arrivisti, per i quali non c’è possibilità di salvezza né redenzione

Madame Bovary, dato alla luce ben 164 anni fa, rappresenta una grande eredità per la letteratura moderna grazie a una prosa che si rifà alla verosimiglianza della realtà attraverso la ricerca meticolosa dei dettagli e della parola.
Ricerca che diverrà centrale nella letteratura successiva e che dà un taglio netto con quella precedente.  

Non sarebbe quindi uno sbaglio parlare di un’epoca pre Flaubert e post Flaubert.

Sebbene io non sia riuscita a entrare in sintonia con un romanzo i cui personaggi non spiccano per amore e simpatia, ho apprezzato molto Flaubert che spicca invece per genialità e per lo stile talmente ricco di dettagli che il lettore non può non “vedere” la luce che filtra attraverso le fessure, le gocce di sudore sul collo di Emma, i lavoratori immersi nel lavoro dei campi.

Come scrisse James Wood “I romanzieri dovrebbero ringraziare Flaubert come i poeti ringraziano la primavera: con lui tutto rinasce”.

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Dio di illusioni | Donna Tartt

Dio di illusioni | Donna Tartt

Appena comprato il libro, la prima domanda che mi posi fu quale fosse questo Dio di illusioni. Leggendo il romanzo compresi che si trattava di Dioniso.

Dioniso, nato da una relazione adulterina tra Zeus e Semele, fu vittima della gelosia accecante di Era che, dopo aver invano tentato di ucciderlo mentre era ancora un feto, in età adulta lo rese folle.
Il Dio iniziò così a vagare per il mondo compiendo imprese incredibili, seguito da un corteo di satiri e baccanti. A queste, si ispirarono proprio i riti a lui dedicati, i cosiddetti riti dionisiaci legati all’esaltazione dei sensi. Ciò poteva avvenire solo entrando in un delirio mistico prodotto dalla danza di una musica forte e un grande stato di eccitazione.

I partecipanti, chiamati a imitare il corteo che seguiva Dioniso, sfilavano ubriachi per la città indossando maschere e muovendosi al suono del ditirambo. Ondeggiando uscivano dalle mura cittadine per dare inizio alla fase più feroce del rito: smembrare un animale vivo e mangiarne la carne cruda-omofagia- per unirsi in comunione con Dioniso e sentirne la presenza nel proprio corpo.

Molti dei partecipanti testimoniavano di essere capaci di grandi azioni e sopportare forti dolori. Questa pratica, ritenuta pericolosa, venne poi abolita successivamente.

A questo rito si è ispirata anche Donna Tartt per il suo romanzo di esordio.

Siamo in un college del Vermont, Richard vi si è appena trasferito e con sua grande gioia riesce a entrare a far parte del corso di greco antico tenuto da Julian Morrow di cui fanno parte solo cinque studenti: Henry, Francis, Bunny e i gemelli Charles e Camilla.
Avvolti da un’aura quasi mistica, Richard li venera come fossero divinità ma comprende che c’è qualcosa di strano nei loro comportamenti. Durante un rito dionisiaco è successo qualcosa, è Henry a spiegarlo a Richard, il quale, insieme al gruppo si macchierà di un delitto per nasconderne un altro.

È l’inizio della loro discesa negli inferi.

Il mondo classico è certamente il fulcro attraverso il quale si diramano tutte le vicende contenute in Dio di illusioni.
Basti pensare che senza il rito dionisiaco non sarebbero esistite le azioni successive.
Pensiamo alla figura di Julian, venerato come fosse un Dio e al rapporto di profondo rispetto tra Henry e il suo maestro che sottolinea l’importanza che esso aveva al tempo dei greci.

Ed è anche il punto cardine del crollo di Henry; nel momento in cui Julian scopre la verità sulla morte di Bunny, il maestro volge le spalle ai suoi allievi, al SUO allievo. Li abbandona nel loro senso di colpa e nel senso di vergogna- anch’esso elemento chiave della civiltà ellenica- che Henry prova per aver deluso il suo maestro.

Non sono mai entrata in sintonia con questo libro e ho fatto fatica ad arrivare all’ultima pagina.
Alla Tartt va però riconosciuto il merito di un grande stile letterario capace di descrivere con estrema poesia anche i gesti più orribili, tanto da non distinguere più nemmeno noi, il bene dal male.
Infine, ho apprezzato la caratterizzazione dei personaggi poiché la bellezza di cui sono intrisi fa da contraltare all’oscurità dei loro animi.

“La bellezza è crudele” (Καλέπα τα κάλα).

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Storia di Ásta | Jon Kalman Stefansson

Storia di Ásta | Jon Kalman Stefansson

Ma com’è possibile raccontare la storia di una persona senza toccare anche le vite che la circondano, l’atmosfera che sostiene il cielo – e soprattutto, è legittimo farlo?

La storia di uno è immancabilmente la storia degli altri. Come si può pensare di scrivere su carta un’intera esistenza, abbandonare la cronologia temporale e lasciarsi trasportare dalla corrente delle emozioni? Il narratore sa bene che si tratta di un’impresa rischiosa e probabilmente sbagliata, ma “ senza errori, è ovvio, non c’è vita”.

È su questo pensiero che si costruisce la storia di Ásta, etimologia di un nome che è un inno all’amore puro, come quello provato tra Helga e Sigvaldi in quel piccolo appartamento di Reykjavík che resiste alle dinamiche economico-politiche del tempo.

Pochissime pagine che volano via come spazzate da una tempesta che ci scaraventano, all’improvviso, tra le righe di una lettera di Ásta indirizzata a un amore ancora sconosciuto.
Da questo momento in poi, la narrazione segue il libero flusso dei ricordi lasciando spazio all’urgenza di raccontare le emozioni attraverso diversi salti temporali.

È stato come ritrovarsi davanti a un puzzle, composto da dettagli e informazioni che, seppur a fatica, si incastrano perfettamente delineando i personaggi in tutta la loro complessità, fragilità e follia.

È così che Stefansson ci racconta la storia di Ásta, toccando e scontrandosi con tutti coloro i quali hanno fatto parte della sua esistenza – la madre Helga, folle e indomita, il padre Sigvaldi, steso sull’asfalto coi suoi ricordi e i suoi tormenti, l’anziana Kristin che si risveglia in epoche passate e infine Josef “l’unico che non ha mai perso la poesia”.

In un andirivieni tra passato e presente, in una lettera d’amore, nei dialoghi tra Sigvaldi e il fratello poeta – “Gli vado a chiedere la sua opinione su come va il mondo, mi sono detto lungo la strada. Gli scrittori devono avere un punto di vista originale: non ti sembra che vada tutto allo sfascio, nel mondo?”, leggiamo la storia di una donna che corre con urgenza verso la felicità, verso il senso della vita, lasciandosi alle spalle la sua incapacità d’amare.

Storia di Ásta racconta l’urgenza di trovare una felicità che sfugge.
Dov’è la mia felicità, l’hai vista qui in giro? Si nasconde sotto il letto?” l’incessante bisogno di amore che riempie la vita di tutti i personaggi che oscillano, come un pendolo, tra speranze e disillusioni.

Stefansson ci consegna un romanzo corale di rara bellezza e intensità, nel quale è necessario il coinvolgimento di tutti per dar vita al colorato mosaico dell’esistenza di Asta che invecchia tra rimpianti e chimere.

È solo allora che ci commuoveremo di fronte a quella lettera spedita dagli abissi ove riposano amore e giovinezza.

A volte pare che un’unica strada porti alla felicità e alla disperazione – ma a parte questo, va tutto bene, no?”

Tra le note di Nina Simone e Leonard Cohen, stringeremo piano le “mani di burro” di una giovane Asta, carezzeremo le parole di Stefansson, riconosceremo la forza creatrice e al contempo distruttiva della poesia, metafora della vita.

Per questo la vita è incomprensibile. È dolore. È tragedia. È la forza che ci fa risplendere”.

 

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Il cardellino | Donna Tartt

Il cardellino | Donna Tartt

Theo è stato sospeso da scuola così, quel giorno, la madre decide di portarlo al Metropolitan Museum di New York a contemplare la bellezza dell’arte fiamminga e in particolar modo quella di un piccolo quadro del Fabritius, allievo di Rembrandt, raffigurante un cardellino incatenato.
Ma più che dai quadri, Theo Decker rimane incantato dalla bellezza di una ragazzina in compagnia del nonno.

Non riesce a distogliere lo sguardo da lei e dai suoi capelli rossi, vorrebbe avvicinarla, sfiorarla ma…
è un attimo e Theo si sveglia tra cenere e detriti, tra cadaveri mutilati e orecchie che fischiano.

L’anziano che accompagnava quella splendida bambina è lì agonizzante accanto a lui e Theo gli fa compagnia mentre la vita gli scivola piano tra le dita. L’uomo parla di qualcosa, fa in tempo a consegnare al ragazzo un anello affinché lo riporti da Hobart e Blackwell e poi lentamente chiude gli occhi per sempre.

Theo prende il suo zaino che pesa molto più di prima, pesa per tutte quelle vite spezzate, per l’abbandono, per quel piccolo quadro rubato in un ultimo gesto d’amore e si tuffa in un mondo di adulti; orfano e vecchio a soli 13 anni.
Gli siamo accanto mentre attende una madre che non tornerà più da lui e che non gli sistemerà più il filo della giacca. Siamo vicini a lui anche quando comprende che il suo unico legame con lei è quel cardellino nascosto da strati di scotch.

Immerso nel suo dolore si ricorda della promessa fatta a un uomo morente, trova il luogo indicato, “Hobart & Blakcwell”, e armato di coraggio suona il campanello. Gli apre un uomo in vestaglia, Hobie che quando vede l’anello che il ragazzino gli porge, lo invita a entrare. Lì ritroverà Pippa, la ragazza del museo, e suo grande amore.

Ma anche dopo l’assenza della bella ragazza dai capelli rossi, Theo tornerà più volte in quella casa, un rifugio tranquillo dal frastuono della vita; proprio lì in mezzo a mobili da riparare, tra vecchio e nuovo, tra polvere e bellezza.
Dopo essere stato dato in affido alla famiglia di Archie, suo grande amico, dovrà affrontare il ritorno del padre che lo porta con sé e la sua nuova fidanzata a Las Vegas, lontano dalla New York che conosce bene; dai suoi profumi, i suoi palazzi, dai ricordi di sua madre.
Proprio a Las Vegas conoscerà Boris, un ragazzo che, nel bene e nel male, cambierà la sua intera esistenza conducendolo nel caos da cui fuggiva, in mezzo a alcol e droghe, ricatti e aguzzini.

Un’esistenza che ci ricorda un po’ quella di Oliver Twist che fa a calci col mondo per trovarvi il proprio spazio e un po’ quella del giovane Holden alle prese coi propri demoni interiori.

Ma anche quando sembra essere sprofondato nel baratro, c’è solo una cosa a tenerlo a galla: il cardellino.
Quel quadro di piccole dimensioni che consacra l’arte e la bellezza come salvezza a cui Theo si aggrappa con tutte le sue forze nonostante un cuore ridotto a brandelli e un’anima che vaga nel caos. Il cardellino è stato il suo sostegno, il suo ponte con una madre che non c’è più, una rivalsa nei confronti di un mondo che lo aveva ferito ripetutamente.

Romanzo di formazione, nonostante molti lo accostino al thriller, “Il cardellino” è un libro che spiazza.
Caratterizzato da una trama per nulla banale e dal ritmo incalzante, le parole sono scelte con cura, la traduzione è impeccabile e la penna della Tartt ci delinea la caducità della vita, i confini sottili dell’equilibrio delle esistenze umane.

Passeggeremo in una new York i cui marciapiedi sembreranno davvero crollare sotto i nostri piedi, tanto è la potenza descrittiva del romanzo tanto quanto la caratterizzazione dei personaggi che quasi ci appaiono reali nelle loro piccole grandi fragilità.
E se da un lato osserviamo la caducità della vita, incatenati come il cardellino di Fabritius, l’unico senso che si può dare al mondo è raccontarlo a qualcuno che amiamo.

Ho scritto tutto questo, stranamente, con l’idea che un giorno Pippa lo leggerà – cosa che ovviamente non accadrà mai.

È in questo che risiede la vera forza del romanzo: nell’innalzare l’arte e la bellezza a potenze salvifiche di una vita altrimenti destinata all’oblio, riempiendo di bellezza gli anni che ci sono concessi.

La bellezza salverà il mondo [Jon Kelman Stefansson]

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Come fermare il tempo | Matt Haig

Come fermare il tempo | Matt Haig

Vorreste svegliarvi quasi immortali?
Perché ‘quasi’?
Perché Tom Hazard dimostra 40 anni ma in realtà ne ha 436. È affetto da anageria, una disfunzione che fa invecchiare il corpo di 1 anno ogni 15. Questo però non lo rende immortale.
È vissuto attraverso i secoli e nonostante gli incontri con Shakespeare, il drink con Fitzgerald e i viaggi per mare con Cook, è un uomo solo. Un eterno migrante che ha cambiato identità più volte, divenendo tanti uomini in un corpo solo. Si è spostato da un luogo all’altro affinché il suo segreto rimanesse al sicuro.
Così per lo meno ordina la società degli Albatros che si prende cura di quelli come Tom, ai quali viene dato un unico comandamento: non innamorarsi.
Mai.

Oggi conosciamo Tom come professore di storia nella Londra moderna. Una Londra che aveva lasciato secoli prima ma ancora impregnata dei ricordi dolorosi del suo grande amore e di sua figlia Marion.
Tom ha tutto il tempo del mondo, è il resto del mondo a non avere il suo tempo.

Tra salti temporali nel presente e passato, scopriamo i dolori di Tom, gli amori perduti, le speranze. Avvertiamo il senso di solitudine che lo avvolge mentre attraversa i secoli da solo senza amici né famiglia in un tempo infinitamente lungo ma sensibilmente ‘finito’. Tom, sottomesso agli Albatros e avvinto dalla paura del futuro, sopravvive.

“Non è possibile conoscerlo[…]è questo il problema del futuro. Non sai. A un certo punto devi accettare di non sapere. Devi smettere di sbirciare avanti e concentrarti sulla pagina che stai leggendo”.

È per questo che un ragazzo con la voglia di conoscenza, una collega al parco e un vecchio cane possono dargli la forza di sganciarsi dal fardello di un tempo che non è più.
Concentrarsi sul qui e ora.
Sul presente, cui nessuno pensa mai troppo.

Ma cos’è che rende possibile un presente sempre eterno?

Ce lo dice Omai che ha rinunciato alla paura e abbracciato la libertà:
“È nell’amore che trovi il senso. I sette anni che ho trascorso con lei contenevano più di tutti gli altri messi insieme. Mi capisci?! Puoi prendere tutti gli anni prima e dopo, pesarli, e non avrebbero neanche una possibilità. Certi giorni, certi anni, certi decenni, sono vuoti. E poi ti imbatti in un anno, o magari solo un giorno, un pomeriggio. E quello è tutto. Tutto quanto”.

Lo comprenderà anche Tom, alla fine. Ed è proprio questo suo coraggio che mi fa voler bene a un personaggio che è lo specchio di ognuno di noi: fatti di emozioni, di paure, di giorni pieni e giorni vuoti. Noi, guerrieri coraggiosi che abbracciamo la vita e l’amore nonostante il peso del passato e l’inconsapevolezza del futuro.

Leggendo questo libro ho visto quello che a volte ci sfugge. E cioè che non sia proprio il temo limitato a nostra disposizione a dare pienezza alle nostre vite.

È vero, forse l’autore non aggiunge nulla di nuovo a quanto stato detto da filosofi e altri prima di lui.

Nonostante ciò, ho voluto bene a  Tom, viaggiatore solitario nei secoli, per terre e mari. E a Matt Haig che con la sua verve britannica e un ritmo cadenzato ci ha accompagnati per oltre 400 anni per farci riflettere sul valore della vita e del tempo con la semplicità che da sempre lo contraddistingue.

“ C’è un mondo in cui si è vivi e un mondo in cui si è morti. E il passaggio da un mondo all’altro avviene senza clamore, proprio come il sussurro di onde che si infrangono contro scogli lontani.
Proprio come ci vuole solo un attimo per morire, ci vuole solo un attimo per vivere”

La domanda è: “Come vivrei”?

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La viaggiatrice leggera | Katharina Von Arx

La viaggiatrice leggera | Katharina Von Arx

Un bagaglio leggero è l’essenziale per visitare luoghi, immergersi, tastarli, assaporarli e raccontarli attraverso un taccuino e una matita.

È così che parte Katharina Von Arx: la viaggiatrice leggera.        

Studentessa d’arte a Vienna, ma svizzera d’origine, spinta da un malessere generale e da una casa che le appare d’un colpo troppo piccola, una gabbia dorata dalla quale è difficile spiccare il volo e interessata a quello che c’è oltre i confini austriaci, invia lettere a tutti coloro che si occupano di viaggi scrivendo se qualcuno può ospitarla gratis, o quasi, su una nave qualunque verso una destinazione qualsiasi.
È il 1953 quando, dopo tanti no, arriva finalmente il tanto aspettato sì e Katharina si imbarca su una nave da crociera diretta in India.

Nasce così questo diario di bordo, corredato da settantanove disegni, che racconta un viaggio che salpa da Genova, passa per un giro in bicicletta a Napoli e un party a Calcutta, attraverso la meraviglia di fronte al Taj Mahal e l’emozione di fronte alle donne di Rangoon con i cerchi attorno al collo. Verso Hong Kong ,Giappone fino all’approdo nell’occidentale America con tutti i suoi stereotipi.

Accompagnata da pochi vestiti, un elmetto, un ukulele e l’occorrente per dipingere, questa incantevole viaggiatrice dipingerà un quadro perfetto del mondo e di chi lo abita. Avida di scoperta e conoscenza, decisa a lasciarsi alle spalle una società che la vuole sottomessa al potere degli uomini, Katharina si ritroverà proprio di fronte allo stesso problema: uomini, sempre e solo uomini.
La verità è che approda in Paesi in cui la struttura sociale è dominata dagli uomini, unici a cui poter chiedere favori per poter continuare il suo viaggio.
Ed eccoli che si sentono in diritto di fare avances di ogni tipo a una viaggiatrice leggera: leggera per via del suo bagaglio, perché viaggia da sola (passabile per una donna di facili costumi) e perché è apparentemente ignara dei pericoli che la attendono.
Ma Katharina sa riconoscere << una tigre da un agnello>> e non si lascerà trarre in inganno da nessuno degli uomini incrociati lungo il cammino e alle cui richieste risponderà con eleganza e grande ironia, quasi come una moderna Jane Austen.
Non si lascerà scoraggiare dal pregiudizio nei suoi confronti né dai consigli elargiti da chi la ha più a cuore: lei decide cosa vedere, quando vederlo e come; fosse anche in bici nei vicoli de Il Cairo.
La particolarità di questo libro la scopro nella postfazione di Sara Mamprin che ci informa che l’autrice stessa ha volutamente omesso parti in cui si è sentita più in pericolo e altre nelle quali ha invece tanto apprezzato la conoscenza di alcuni uomini senza dirci come sia mai andata a finire.

 Katharina, scrittrice e giornalista venuta a mancare alcuni anni fa, è una viaggiatrice leggera e prima ancora una donna libera che viaggia accompagnata da quella elegante sfrontatezza di chi non teme la libertà.

La viaggatrice leggera è un diario di viaggio che consiglio a tutte quelle donne che temono di perdersi nel mondo ma che hanno il coraggio di affrontarlo ogni giorno anche tra i muri di casa.

Difendiamo la nostra libertà è il dono più prezioso che possediamo.

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