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Miss Islanda | Audur Ava Olafsdottir

Miss Islanda | Audur Ava Olafsdottir

Miss Islanda di Auður Ava Ólafsdóttir mi porta in una terra che non ho ancora visitato ma di cui ho letto talmente tanto che mi sembra di esserci stata già tante volte, e ogni volta è una scoperta.

Questo è il potere dei libri, quelli belli, quelli capaci di trasportarti altrove, a Dalir, ad esempio, dove Hekla è appena venuta al mondo. Porta il nome di un vulcano, capace di ribollire ed esplodere all’improvviso.

Aveva appena quattro anni quando il padre la porta con sé per vedere da vicino l’eruzione dell’hekla: un secolo di silenzio, interrotto da una forza prorompente e magnifica.

Travolta dall’emozione, la piccola inizierà a guardare sempre altrove, oltre le stelle.

Qualcosa le bolle dentro, una voce che deve far uscire con forza, ed è proprio nella scrittura che scopriremo il magma incandescente che giace nella sua anima.

Sa di non essere destinata a un luogo che vuole concederle solo la celebrità e un premio per la sua bellezza. Perché Hekla è bella, ma di regali e concorsi di Miss Islanda non interessa nulla. Vuole solo scrivere e ribellarsi alle convenzioni sociali che, negli anni sessanta, esigono da lei una famiglia e piatti caldi.

È questo il destino che spetta alla sua migliore amica, Isey, confinata in una minuscola casa al seminterrato che sogna di evadere attraverso un quadro su cui è dipinto il mare: l’unico da cui filtri la luce e il colore.

Hekla non vuol finire così, confinata in un’isola che non la capisce, la stessa che non capiva Jon John, il suo migliore amico. Un invertito. Uno che dopo essersi imbarcato per mare, finalmente vola via anche da Reykjavik per inseguire la libertà: il sogno di lavorare con la sua macchina da cucire facendo abiti per il teatro.

Partito per trovare il suo posto nel mondo e magari un compagno con cui condividere l’amore, nella capitale lascia Hekla, trasferitasi lì, nel frattempo, per diventare scrittrice. Ma lei scrittrice lo è già.

Ha pubblicato molti manoscritti e poesie sotto pseudonimo maschile perché “i poeti sono maschi”.

Hekla trova perfino un fidanzato, un poeta. Cerca di vivere nei confini prestabiliti. Le piacerebbe tanto scrivere e avere un uomo ma […] ho bisogno sia di essere sola, sia di non essere sola.
Così deciderà di lasciar perdere l’amore e inseguirà il sogno di scrivere, più a sud , insieme a DJ Jhonson, la sua perfetta metà.

Insieme a Auður Ava Ólafsdóttir, ho intrapreso un viaggio attraverso il quale ho sentito la terra vibrare sotto la potenza dell’Hekla, il freddo del nord e il sole tiepido sulla pelle.

Mi sono affezionata a Hekla, coraggiosa e rigogliosa di vita, proprio come il vulcano da cui prende il nome.

Ho sfiorato la sua anima attraverso le parole. Ho carezzato il viso livido di Jon John che fa a botte con un mondo che non è ancora pronto per lui. Ho voluto bene alla dolce Isey, che riscrive la sua vita con penna e fogli bianchi.

Sono personaggi che vibrano di emozioni, sono reali, sono veri.
Sono tutti noi, mosaici di emozioni e vissuti.
Miss Islanda è un libro poetico, forte.

Un libro che ci ricorda la potenza delle parole e la forza di un sogno.
E lo meritiamo tutti, un libro così.

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In viaggio con Erodoto | Ryszard Kapuscinski

In viaggio con Erodoto | Ryszard Kapuscinski

“In viaggio con Erodoto” ci racconta le vicende di Kapuscinski che si snodano lungo la sua carriera come inviato e di come, davanti alle difficoltà, il suo faro nella notte era proprio Erodoto.

È il 1955 ed è appena stato firmato il Patto di Varsavia; il confine è concepito come una linea di protezione e siamo ben lontani da quell’idea oggi scontata della libera circolazione delle persone.

Ryszard sente però il bisogno di varcare la frontiera. Si propone al giornale come corrispondente estero e un anno dopo verrà inviato ben oltre i confini nazionali; oltre ogni immaginazione arriverà in India. 

Inizierà così la carriera di uno dei reporter più celebri d’Europa attraverso Cina, Congo, Algeria e Iran. 
Ad accompagnarlo, le “Storie” di Erodoto. Il filosofo viene definito da Kapuscinsky come il primo vero reporter della storia.

Erodoto, infatti, ha preannunciato il reportage contemporaneo quando era ancora il V secolo a.C. e piccola era la porzione di mondo conosciuto. Lui si è spinto oltre, sfidando intemperie e tempi di percorrenza lunghissimi per perseguire la verità consapevole che” il passato non esiste.

I mondi sono molti e tutti diversi. Sono tutti importanti e bisogna conoscerli, poiché le altre culture sono specchi che riflettono la nostra, permettendoci di capire meglio noi stessi. È impossibile definire la propria identità finché non la si è confrontata con le altre”.
È importante, e Ryszard lo sa bene, accostarsi all’altro con umiltà, apprendere costumi e tradizioni con pazienza.

L’India rappresentò il mio primo incontro con la diversità, la scoperta di un altro mondo. Un incontro straordinario e affascinante, ma anche una grande lezione di umiltà. Il mondo ci insegna ad essere umili. Ritornai da quel viaggio vergognandomi di non aver letto abbastanza e di essere un ignorante. Avevo scoperto che una cultura estranea non si svela a comando e che, per capirla, occorre una lunga e solida preparazione”.

Ecco uno dei primi insegnamenti del suo compagno di viaggio: una scrupolosa e curiosa esplorazione dei costumi dei popoli lontani nel pieno rispetto degli stessi. Erodoto si fa quindi pioniere del multiculturalismo contro ogni possibile pretesa di assoggettare la diversità secondo regole precostituite.

“In viaggio con Erodoto” si snoda tra passato e presente nel volgere dei millenni. Ci sono i viaggi di Ryszard e quelli di Erodoto.

C’è un Congo in lotta e c’è Algeri dove potrebbe accadere qualcosa di interessante. Ma quel “qualcosa” è avvenuto la notte prima dell’arrivo di Ryszrad; un colpo di stato che ha deposto Ben Bella per Houari Boumedienne. Il giorno appare uguale agli altri: la gente va a fare la spesa e non ci sono carri armati per le strade. Insomma, niente da raccontare.

È a questo punto che l’essenza del pensiero di Erodoto diviene consapevolezza e il nostro reporter comprende che non importa se non ci sono carri armati di cui parlare perché si avrà il tempo di comprendere, di parlare con la gente e fare in modo che loro si aprano con lui.

Questo viaggio, apparentemente vuoto, si rivelerà l’essenza del viaggio stesso, un nuovo modo di raccontare la realtà
Da quel momento mi era parso di capire meglio Erodoto. Il suo pensiero, la sua curiosità, il suo modo di vedere il mondo“.

“In viaggio con Erodoto” è un libro che intreccia ricordi e reportage giornalistici, si affaccia al mondo e ne esalta le differenze senza ovvietà.

Kapuscinski lo fa con uno stile gentile mai cattedratico, esaltando il viaggio in ogni sua forma, come ricchezza, fonte, tesoro

Solo in viaggio un reporter si sente a casa propria“.
Non posso essere più d’accordo con le sue parole, con quel senso di familiarità che arriva dall’altro.

Perché in esso ci specchiamo e infine ci comprendiamo.

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Mare calmo | Nicol Ljubić

Mare calmo | Nicol Ljubić

Mare calmo- Nicol Ljubic

Con Mare calmo, Nicol Ljubić prova a spiegare il conflitto tra Serbia e Bosnia e lo fa attraverso l’amore.

Robert ama Ana. L’ha capito dal primo momento in cui l’ha conosciuta a teatro dove lei faceva la guardarobiera. Conquistato dai suoi capelli corvini, il corpo esile e quei modi sfuggenti.

Ana è serba e quando le bombe cadevano su Belgrado lei cercava di salvarsi mentre Robert, di origini croate ma nato e cresciuto in Germania, guardava la tv senza interessarsi a una storia che lo riguardava da vicino.

Ana e Robert iniziano ad amarsi in una Berlino libera dal muro, ma il loro rapporto libero non lo è.

Una storia qualunque che finisce col mischiarsi con la Storia, quella fatta delle urla mute di Visegràd e del silenzio assordante di Ana.
Quanto più dovrà avvicinarsi alla verità, tanto più Robert si allontanerà da lei.

“È la figlia di un criminale di guerra quella che ami”. E mentre lei il passato vuole lasciarselo alle spalle, Robert ha bisogno di andare a fondo, di comprendere.

Così vola al tribunale dell’Aja per assistere al processo di Zlatko Simic, il padre tanto amato da Ana e il professore di letteratura rispettato dai suoi studenti, accusato di aver bruciato vive 42 persone durante la loro fuga da Visegrad.

Da questo momento in poi l’amore si mescola alla guerra, una pulizia etnica che non ha risparmiato nemmeno i bambini; come se la seconda guerra mondiale, avvenuta 50 anni prima, non avesse insegnato nulla.

Ciò mette in luce un aspetto al quale spesso non pensiamo di fronte alla brutalità della lotta stessa, ed è chiedersi quanto la colpa collettiva possa tenersi separata rispetto a quella individuale.

Da un lato c’è il popolo serbo che deve espiare il male fatto ai danni dei suoi fratelli bosniaci, e dall’altro c’è Ana che con la guerra non c’entra nulla. E non c’entra nemmeno con il massacro di 42 persone innocenti.

Non è lei stessa vittima di una guerra che non ha chiesto? Costretta a giustificare azioni mai compiute in nome di una lotta che chiedeva l’annientamento delle diversità.

Cosa resta a Robert di fronte alle verità, di fronte all’esito (che qui non vi dirò) del processo?

Tornare alle origini e scavare a fondo laddove non aveva mai guardato e magari ritrovare la bonaca, mare calmo in serbo, tanto cara a lui e Ana.

Mare calmo è un libro dolce amaro. In un periodo come quello a cui stiamo assistendo, si rivela una lettura necessaria che ci ricordi dove può portare l’odio e che non sempre è facile tracciare una linea netta tra vittime e colpevoli.

“C’è qualcosa che è più forte dell’amore, ed è la memoria di ciò che è successo”.

Mare calmo, Nicol Ljubić, Keller Editore.

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Ritorno al caffè Europa | Slavenka Drakulić 

Ritorno al caffè Europa | Slavenka Drakulić 

Ritorno al caffè Europa

Ritorno al caffè Europa, di Slavenka Drakulić, edito Keller Editore, è un affresco variopinto sui paesi dell’Est Europa dopo il crollo dei regimi totalitari comunisti.

È il 1989 quando cade il muro di Berlino, seguito dal crollo dell’Unione Sovietica e dalla guerra dei Balcani, che ha lasciato dietro di sé una lunga scia di sangue.

Se con il suo primo libro “Caffè Europa”, Slavenka Drakulić poneva l’accento sulla velocità con la quale i paesi ex comunisti cercavano di assomigliare all’Occidente, creando caffè sempre più simili a quelli di Parigi e Vienna, trent’anni dopo, con Ritorno al caffè Europa, analizza la situazione di quegli stessi Stati alla luce di un assetto europeo nuovo.

Quello che emerge, nonostante l’Unione Europea, è che i paesi che ne fanno parte non siano tutti uguali: ci sono quelli di serie A e quelli di serie B.

La corsa dell’Est per somigliare sempre di più all’occidente è risultata vana. Questi paesi hanno dovuto lottare contro l’economia capitalista, la povertà e corruzione. Basti solo pensare ai prodotti alimentari immessi nel loro mercato, situazione descritta nel capitolo “Apartheid alimentare europeo”.

Poiché il potere d’acquisto in questi paesi, è inferiore rispetto a quelli di altri della comunità europea, si immettono nel loro mercato prodotti alimentari con confezioni identiche ma dalla qualità più scadente. Un esempio è la nutella, meno dolce che a Vienna. Tutto, in nome del profitto. Qualche voce è stata ascoltata e alcune cose sono state rimesse al loro posto.

Ma si possono davvero sistemare le cose? La corsa all’occidentalizzazione ha gettato nuova luce su sistemi inesistenti, La Croazia ha rallentato la modernizzazione della propria burocrazia perché, una volta dentro, non serve più dimostrare nulla. E intanto, comprare casa diventa un giro in un labirinto perdendosi tra uffici e scartoffie.

Ritorno al caffè Europa ci riporta in quei paesi che credevano nel cambiamento e nel progresso, i cui sogni, però, sono stati disillusi e trent’anni dopo, la situazione non è delle migliori.

A Sofia, si costruiscono ville laddove le strade sono infangate e non verranno asfaltate perché non interessa a nessuno farlo.
La tessera sanitaria europea che doveva fungere da collante, presenta tantissime crepe.
I migranti di un tempo, oggi, vedono nuovi migranti arrivare a ondate, occupare abitazioni e ogni cosa resta nel degrado.

Allora, l’esempio liberale, ha davvero “liberato” questi paesi ex comunisti? O ha fatto emergere che gli stati non erano pronti a questo sistema; stati in cui povertà, corruzione e violenza, contenuti sotto gli anni comunisti, adesso sono sotto gli occhi di tutti?

A prescindere dalle ideologie politiche, Ritorno al caffè Europa, è un libro che consiglio di leggere a chi, per la prima volta, si approccia alla storia europea degli ultimi decenni e a chi ne conserva già la memoria.

In questo “arazzo variopinto” che è l’Europa, la penna della Drakulić riesce a delinearne le sfumature in maniera limpida ricordandoci che forse è il caso di guardare un po’ più in là dei nostri confini.

A quell’Europa che ancora oggi è in transizione, a quell’Europa che si dichiara unita e che, chissà, se i politici contribuiranno a disgregare.

 

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All’ombra del fico, di Goran Vojnović 

All’ombra del fico, di Goran Vojnović 

All'ombra del fico Goran Vojnović

All’ombra del fico, terzo romanzo dell’autore sloveno Goran Vojnović, ci trascina nella storia dei Balcani degli ultimi decenni.
La generazione dell’autore è quella nata dopo la morte di Tito e la disgregazione della Jugoslavia.

Ma cosa significa, non solo a livello storico, lo smembramento di un paese che fino ad allora aveva considerato unite tutte le federazioni che lo componevano?

La cui lingua era quella serbo-croata (non jugoslava) e la pluralità delle identità considerata una peculiarità da conservare e proteggere di fronte alla minaccia del nazionalismo?

Che, mentre il paese si disgrega, crollano anche le identità individuali.
Cambiano le persone e a farne le spese sono le generazioni, figlie di quella pluralità cui si dava valore e che successivamente è diventata una minaccia.

Ognuno ha dovuto identificarsi: sloveno, serbo, croato. Ognuno diviso.

“Voi due siete dall’altra parte del confine. Come se qualcuno avesse tracciato una linea attraverso il mio corpo. Ci hanno divisi, ci hanno divisi tutti. Hanno tracciato una linea di confine tra me, mia madre e mio padre. ora c’è qualcuno che decide se posso vedere i miei genitori”.

Jadran, ha appena perso suo nonno Aleksander e Anja, la moglie, lo ha abbandonato. Il cuore è ridotto a brandelli e sente l’urgenza di costruire la storia della sua famiglia per trovare un senso alla sua esistenza.

Una vita fatta di abbandoni: il primo, quello del padre Safet che scompare senza lasciare traccia, salvo poi scoprire che era andato a combattere quella guerra che ha portato alla disgregazione della Jugoslavia.

Una storia che si ripete visto che, come Safet, anche il nonno Aleksander aveva lasciato la moglie Jana per trascorrere un anno in Egitto per lavoro. La conseguenza fu un’enorme frattura con l’intera famiglia.

Frattura mai risanata.

La famiglia di Jadran rappresenta perfettamente la normale multietnicità della Jugoslavia: il nonno, nato da madre con origini ebree ma bosniaca, aveva cambiato identità divenendo serba e andando a vivere in Slovenia. Safet, il padre, è bosniaco e sua madre slovena; e sloveni sono la moglie Anja e il figlio Marko.

La questione sulle identità passa attraverso la famiglia di Jadran. Se già di per sè le fratture interne ai rapporti familiari sono difficili, ancor di più lo sono in un contesto in cui lo stesso Stato a cui appartieni cessa di esistere; perché, con lui, cessa anche la propria identità.

Si ridisegnano confini e al contempo bisogna ridefinire sé stessi, comprimersi in qualcosa di più piccolo e non è certo che i panni calzino perfettamente.

Con il crollo della Jugoslavia si sono recisi anche i legami familiari.

In questo contesto di grandi lacerazioni, solo il fico del giardino del nonno di Jadran sembra essere sopravvissuto alla storia, quasi a ricordarci che è nelle nostre radici che troveremo sempre noi stessi, la nostra identità e tutte le risposte alle nostre domande.

“Appoggiò la mano sul tronco dell’albero e fece scivolare le dita sulle ammaccature e sui rigonfiamenti come per verificare se il mondo intorno a lei fosse ancora reale. Era grata a questo albero dalla folta chioma per aver mantenuto il suo aspetto e il suo odore ed essersi ribellato alla follia che in pochi anni aveva cambiato tutto, dal paesaggio alla gente. Principalmente la gente”.

All’ombra del fico è una saga familiare multigenerazionale attraverso la quale vivere le divisioni individuali e nazionali.

Goran Vojnović ci consegna un romanzo delicato, lento e silenzioso, nel quale, ogni personaggio compone il mosaico di una Storia più grande.
Non sarete avidi di lettura ma leggerete con calma ogni riga de All’ombra del fico, lasciandovi trasportare in quel mosaico multietnico che un tempo era la Jugoslavia.

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Kallocaina, il distopico di Karin Boye

Kallocaina, il distopico di Karin Boye

La prima domanda che mi sono posta dopo aver letto Kallocaina, il distopico di Karin Boye, edito Iperborea, è stata la seguente:

“Quando i cittadini sono davvero liberi?”

La risposta è che molto probabilmente la libertà dipende dal controllo che ogni governo impone. Lo si comprende dopo questa lettura.

Di questo tema se ne è già parlato con altri distopici di spessore quali “1984” di Orwell e “Il mondo nuovo” di Huxley che nonostante siano stati scritti molti anni fa, si collocano perfettamente nell’epoca attuale. Tra questi baluardi della distopia, però, si pone a buona ragione anche Kallocaina, la cui pubblicazione precede addirittura il libro di Orwell.

Per parlarvi di questo libro, devo però spendere due righe sulla vita dell’autrice, premessa utile per comprendere lo stato in cui si trovava la Boye durante la stesura del romanzo.

Kallocaina è stato scritto nel 1940 dalla svedese Karin Boye la quale, a ventidue anni, aveva già pubblicato la sua prima raccolta di poesie. Qualche anno dopo militerà nel movimento socialista “Clartè”, fondato sui valori pacifisti.
Durante questo impegno civile conosce l’uomo che sarebbe diventato suo marito con il quale il rapporto naufragherà molto presto in quanto ella stessa si rende conto di essere bisessuale.

A quei tempi, in Svezia, l’omosessualità era considerata un reato. Così Karin viaggerà moltissimo tra le varie capitali europee. Durante la sua permanenza a Berlino si sottopone a una terapia di psicanalisi e proprio in questi anni conoscerà Margot Hanel la quale le starà accanto fino alla fine della sua vita. La morte, purtroppo, non tardò ad arrivare.

A un anno dalla pubblicazione di Kallocaina, non avendo mai superato le proprie crisi esistenziali, Karin Boye si toglie la vita ingerendo dei sonniferi. È il 1941, lo stesso anno in cui si tolse la vita anche Virginia Woolf.

Dopo questa breve premessa, vi lasco trama e impressioni del libro.

Leo Kall è prigioniero da oltre vent’anni, anni durante i quali, scrive un diario. Le pagine raccontano la vita nella città Chimica sotterranea dello Stato Mondiale.

In una città governata dallo Stato Mondiale, l’individualità è stata a esso assoggettata. dominandone ogni sfera e riducendo a zero i diritti e le libertà dei cittadini.

I figli, sin da piccoli, vengono sottratti alla famiglia per essere educati al sacrificio “individuale”, in nome della “collettività”. Le donne hanno l’unico dovere di mettere al mondo figli maschi che diventeranno i soldati dell’apparato governativo.

In un mondo privo di libertà, Leo Kall, inventa la kallocaina: un siero che, iniettato, porta il soggetto a dire la verità. Uno strumento utile alla polizia per stanare quei cuori ribelli che in società mostrano il volto migliore e dentro nascondono quello naturale dell’autodeterminazione.

Tutte le convinzioni di Leo Kall iniziano a vacillare man mano che ascolta sempre più persone dire la loro personale verità. Quelle voci, stranamente calme, fanno emergere una verità assoluta alla quale il dottore arriva dopo qualche tempo.
Nel momento stesso in cui inizia a porsi delle domande, la sua cieca fiducia nello Stato, inizia a vacillare.

“Sapevo che era una maniera falsa e malsana di vedere le cose, e cercavo di convincermene con ogni possibile argomento. ma quel vuoto che sentivo ingrandirsi come un deserto dentro di me, non aveva altro nome che mancanza di senso”.

L’io dei personaggi è ben delineato. Sottoposti al siero, le esternazioni diventano un flusso di coscienza che si riversa in un’unica grande verità: l’insaziabile sete di libertà.

La voce del singolo diventa quindi un coro unico; i mille volti e cuori, pezzi di un grande mosaico nel quale si intravede il colore della speranza: l’unica in grado di non perire e che mai potrà divenire serva di un potere malato.

Karin Boye ci consegna un libro capace di penetrare l’animo umano e facendo ciò, riesce a dar vita a uno scontro tra l’accettazione passiva delle imposizioni e il rifiuto verso le scelte totalizzanti del governo.

Kallocaina è il libro che andrebbe letto per tenere sempre come monito che la verità DEVE sfuggire a ogni possibile strumentalizzazione per poterci davvero definire liberi.

“Siete capaci di ascoltare la verità, voi? La cosa triste è che non tutti sono abbastanza veri da poter sentire la verità”.

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L’eterno Viaggiare. The Balkan Express Journey | Sallustio

L’eterno Viaggiare. The Balkan Express Journey | Sallustio

L’eterno viaggiare. The Balkan express journey” di R. Sallustio, è un diario di un on the road veloce dei Balcani iniziando da Zagabria, passando per Belgrado, Sarajevo fino ad arrivare a Bar, in Montenegro.

Questo libro mi ha fatto compagnia durante il mio viaggio in Montenegro e, proprio a Bar, è stata scattata la foto dell’articolo.

Come un vero e proprio diario, Roberto racconta le vicende dei suoi dieci giorni di viaggio in una zona, quella balcanica, ancora poco battura dal turismo. Il libro si apre nel 2007 con un saluto a una cara amica che sa d’estate e salsedine. Sette anni dopo, intraprenderà quel viaggio troppo spesso rimandato. Un saluto sospeso che si stringe forte al petto qualche anno dopo.

Nel mezzo un lavoro che non c’è più e il coraggio di mettere uno zaino sulle spalle e andare. Nessun programma definito. Roberto sa quali saranno le città in cui soggiornerà ma non ha definito tutti i mezzi con cui si sposterà. Sa che partirà in treno fino a Zagabria e che ritornerà in nave fino a Bari. Il resto è lasciato al destino e, perché no, anche agli imprevisti.

Fatte queste premesse, è il momento di partire: prima destinazione Zagabria, città permeata di religiosità e ancora troppo europea.
Da qui ci spostiamo a Belgrado dove i palazzi, colpiti dalle bombe, convivono con quelli più moderni.
Da Belgrado a Sarajevo, ci spostiamo in auto. Un autista sui generis accompagnerà Roberto facendo soste inaspettate e deviazioni improbabili, solo per consegnare un pacco al caro amico di sempre.
Nonostante le reticenze iniziali, il protagonista si ritroverà a chiacchierare con lui, scoprendo quella parte di storia che non sempre si trova sui libri di scuola. Quella di chi le guerre le ha vissute davvero e sa raccontare le emozioni, i disagi. Racconta l’essenza di un paese, le verità ai più, sconosciute.

Insomma, le ore sono passate così velocemente che Sarajevo si presenta ai nostri occhi col suo mosaico di culture, vite e sopravvivenza.
Per non dimenticare la guerra, così attuale, così vicina, accompagniamo Roberto alla visita alla mostra allestita in memoria delle vittime del massacro di Srebrenica.

Ma non è della guerra che l’autore vuole parlarci, e da Mostar, manca poco per arrivare a Podgorica: la capitale del Montenegro. Una città, ancora oggi, priva di identità. Da qui, una manciata di kilometri ci separano dall’ultima tappa di questo viaggio: Bar. È lei la meta, il viaggio, il senso profondo della vita.

Ci si riconosce in questo viaggiatore solitario, vagabondo dei Balcani: noi che camminiamo in questo mondo chiamato vita. Io mi sono riconosciuta in lui che compra un segnalibro come souvenir.
Io ne ho collezionato decine e decine dai miei lunghi viaggi. E così ho sorriso, ho sentito questo libro vicino.

Ho ricordato l’esperienza del viaggio che si compie da soli alla ricerca di sé stessi. Perché è questo che è accaduto a Roberto, è questo che accade a ogni viaggiatore: ci si ritrova. Si rientra a casa con un bagaglio di emozioni che arricchiscono, che fanno entrare in punta di piedi oltre i confini, nelle vite e nelle case degli altri.

Si impara a non giudicare ma ad accogliere e comprendere.

Una lezione che insegna a lasciarsi travolgere dall’ambiente che ci circonda, dalle infinite distese di granturco che vedi dal finestrino, dall’acqua cristallina del fiume Drina, dalle sfumature dei colori che si susseguono di paese in paese.

Si impara che il viaggio è fatto anche di persone, quelle incontrate per caso in un bar o alla reception di un ostello.

È non avere paura delle esperienze negative che, in un viaggio, come nella vita, possono sempre capitare. Basta affrontarle e superarle.

Visitando i Balcani ci si aspetta paesi desolati, tristi, distrutti.

“Ero preparato a cimiteri e croci, ma qui è tutto sorprendentemente vivo”.
Bisogna camminare nell’oscurità per vedere la luce.

L’eterno viaggiare. The Balkan express journey” è un eterno viaggiare, nel mondo, nella vita, dentro noi stessi. Ci fa abbracciare emozioni, colori, sapori. Ci insegna il coraggio e la bellezza che è tutta intorno a noi.

Una carezza per tutti i viaggiatori che, attraversando il mondo, scoprono sé stessi.

 

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Lo scaffale degli ultimi respiri | Aglaja Veteranyi

Lo scaffale degli ultimi respiri | Aglaja Veteranyi

Un libro di Aglaja Veteranyi, Keller Editore

Aglaja Veteranyi rappresenta quella letteratura che guarda a una parte di mondo troppo spesso ignorata e che grazie a case editrici indipendenti, come la Keller, può oltrepassare i confini. Dopo la lettura de “Perché il bambino cuoce nella polenta“, è il turno dell’ultimo libro “Lo scaffale degli ultimi respiri”.

Chi ci parla è stata concepita a Cracovia, è nata a Bucarest da mani tedesche, ha lasciato le appendici in Cecoslovacchia e di adenoidi è stata operata a Madrid. Figlia di circensi, dopo essersi spostata frequentemente portandosi addosso lingue che non sono la sua, sapori e profumi di terre lontane, si stabilisce in Svizzera. A quattordici anni, analfabeta, decide di imparare il tedesco, una lingua che non è quella nativa ma che le cresce addosso.

Lei non ha radici in nessun luogo.

La sua è una famiglia “amputata”: lo zio è in galera, il padre è scappato, lei non riesce ad amare sua madre ma muore d’amore per la zia: quella a cui deve dire addio perché il freddo della morte se l’è portata via.

È questa la storia di Aglaja Veteranyi, figlia di circensi rumeni, sbarcata in Svizzera con tutti i paesi riposti alla rinfusa in valigia, parole che non trovano radici e rituali rumeni un po’ sbiaditi.

“Costel lava il grano – in nove acque, perché nove sono i cieli – versa le noci e inizia a rotolarci sopra la bottiglia per tritarle. Mischiare, impastare. Costel prepara il dolce dei morti, perché i morti hanno fame”. 

“Lo scaffale degli ultimi respiri” è un romanzo potente che si cicatrizza addosso e ogni parola si conficcherà nella carne.
Nel dolore della morte della zia, si eleverà la poesia di Aglaja Veteranyi riempiendo un corpo che marcisce, un saluto soffocato, il cuore di chi resta e quello di chi parte.

Una vita senza radici la sua, una vita senza madrepatria, senza una casa a cui tornare a sera per riscaldarsi. Un’esistenza che si aggrappa a parole sconosciute, a profumi che non le appartengono, attraverso rapporti materni frantumati, amori traditi e mancati; attraverso l’ incompiuto e  un destino un po’ beffardo che ci ricorda che “si passa molto più tempo da morti che da vivi”.

E di morte e dolore è permeato l’intero romanzo. Nessuna luce nell’ultimo rigo di un romanzo intenso e invasivo.

È forse l’assenza di radici a renderci fragili? O la lingua madre che scorre senza attaccarsi alla pelle?
O forse è l’amore di una madre che scivola senza restare mentre quello della zia affonda in ogni strato della pelle? È la morte, forse, a renderci fragili?

La morte che Aglaja Veteranyi ha abbracciato nel febbraio 2002, poco prima l’uscita di questo romanzo, gettandosi nelle fredde acque del lago di Zurigo.

“Quando l’ultimo respiro di un uomo arriva a Dio, in quel respiro si raccoglie tutta la sua vita e quell’ultimo respiro è come un libro in cui Dio legge la vita di ogni uomo. La biblioteca di Dio è uno scaffale pieno di ultimi respiri”.

Anche del tuo, cara Aglaja, che ci hai regalato l’ultimo tuo intenso respiro.

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Ad Amsterdam con Jessie Burton

Ad Amsterdam con Jessie Burton

Un viaggio nell’Amsterdam del 1687 con Jessie Burton e i suoi due libri “Il miniaturista” e “La casa del destino”, usciti a dieci anni di distanza l’uno dall’altro.

Recensione

Petronella arriva ad Amsterdam dalle campagne di Assendelft con il suo pappagallo Peebo.
Un mese prima ha sposato il ricco mercante Johannes Brandt e oggi bussa alla sua porta.

Ad accoglierla, però, c’è solo la sprezzante sorella Marin Brandt e la domestica Cornelia, famosa per la sua ottima cucina e per avere occhi e orecchie in ogni angolo della casa.

A sorvegliare le donne, dare una mano in casa e a lavorare col seigneur Brandt c’è Otto che arriva dal Suriname. La sua pelle scura e i capelli ricci tradiscono le sue origini e in una città di finti perbenisti con le orecchie tese ai lunghi sermoni della domenica e mani ben strette ai propri fiorini, la sua presenza fa scalpore. Come fosse un animale da circo, le dame di Amsterdam pongono degli uccelli sui suoi capelli. “Il nido perfetto”, immaginano.

Questa Amsterdam ha regole precise che non possono essere violate. L’invidia è più forte della verità e dell’amore e Nella ne sarà sopraffatta. Con i suoi diciotto anni dovrà tenere alta la testa, imparare a vivere e superare le insidie che l’alta società olandese le riserverà.

Solo una cosa ha valore per Nella: la riproduzione in miniatura della casa offertale come dono di matrimonio da Johannes.
Essa è la copia perfetta della loro casa di Amsterdam, Nella ne rimane affascinata.
Decide, quindi, di ordinare delle miniature all’unico miniaturista presente ad Amsterdam, ma, quando apre il pacchetto che le consegna, si accorge che quelle che le arrivano, sono miniature fin troppo fedeli alla realtà.

Settimane dopo, senza aver fatto alcun ordine, riceve altri pacchetti contenenti miniature che, se solo si avessero avuto occhi attenti, ci si sarebbe accorti che esse raccontavano storie non troppo lontane dalla realtà.

Una benedizione? Una persona con poteri premonitori? O una maledizione?

Diciotto anni dopo, ne “La casa del destino”, troveremo risposta a queste domande quando, la giovane Thea, riceverà in dono la miniatura di una casa. Tra intrighi, amori di profitto e radici che si attaccano addosso, Nella potrà finalmente mettere un punto alla storia di quella persona dalle mani fatate che sembra in grado di leggere il destino.

E perché no, vivere, finalmente, quella vita che le è stata negata.

Jessie Burton ci regala una storia capace di rivelare una società olandese ben diversa da quella che conosciamo oggi.

I libri rappresentano l’affresco di una città di mercanti e perbenisti che ha come unico obiettivo il dio denaro e in nome di quello getta fango su chi alla città ha dato tanto, giustificandosi attraverso la religione, anche questa piegata a ciò che luccica.

L’alta società olandese non ne esce pulita e la Burton la tratteggia con toni duri gettando pennellate di durezza e critica.
Ma, nonostante la crudeltà, la giovinezza sfiorita, la ribellione di una diciottenne riccia, nonostante la falsità evidente dell’alta società, a sopravvivere è il focolaio domestico. I rapporti veri, l’amicizia, la famiglia.

L’amore.

Ed è proprio la vicinanza degli affetti ciò che ho apprezzato maggiormente di entrambi i libri, legami che col passare degli anni si rafforzano e divengono indissolubili.

Ho amato anche la perfetta caratterizzazione dei personaggi che evolvono, mostrando forza e debolezze, attraverso la penna sapiente di Jessie Burton.

Leggendo questi due libri, ma soprattutto “Il miniaturista”, sarà come ritrovarci in un quadro di Rembrandt, con tutte le sfumature dell’esistenza; luci e ombre che avvolgono Amsterdam e la sua società.

A chi consiglio la lettura di questi libri?

A chi ha voglia di viaggiare in un’Amsterdam ben diversa da quella dei giorni nostri, a chi ha voglia di una storia ricca di mistero e che non teme di guardare alla crudeltà dell’uomo.

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