Pubblicati da Cristina

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Kukum | Michel Jean

Kukum | Michel Jean

Kukum

Il racconto di un amore autentico, la storia dell’oppressione indigena, l’eredità di una donna che ha tentato di difendere la propria dignità e quella di un mondo quasi scomparso.
Tutto questo è Kukum che, in lingua Innu, significa nonna. Ed è lei, Almanda, bisonna dell’autore Michel Jean, che ci conduce per mano in un mondo ancestrale quasi spazzato via dal progresso.

Almanda, di origini irlandesi ma cresciuta e vissuta in Canada in una modesta casetta con i suoi zii, vede un ragazzo sulla sua canoa guadare il fiume e se ne innamora. Lui è Thomas, un Innu, un indigeno della terra del Quebec col quale Amanda decide di costruire la sua vita.
Una nuova esistenza nella terra del Nitassinan dove gli Innu  cacciano per la sopravvivenza, grati e rispettosi per il sacrificio di ogni animale. Qui esiste il rispetto per la natura, uno spazio in cui l’uomo vive in armonia con ciò che lo circonda.

Almanda viene accolta dagli indigeni che le insegnano a essere una Innu: impara a intrecciare le pelli, a cacciare, imparando e sentendo questa simbiosi con l’ambiente attraverso il ritmo lento delle stagioni che accompagna il loro nomadismo. Ed è così che imparerà la lentezza, scoprirà la bellezza di una lingua tanto antica. Ci parlerà di quell’amore che supera le barriere e delle storie raccontate attorno al fuoco.

Almanda ci racconterà del cambiamento che il progresso porta con sé. Della paura, dell’impossibilità di vivere come Innu. Di bambini portati via per cancellare l’indiano che era dentro di loro attraverso una cultura che soffoca e non rispetta. Centocinquantamila bambini strappati alle loro radici, di cui quattromila non hanno mai fatto ritorno e sono scomparsi.

“Seduti nelle canoe, eravamo paralizzati dalla paura. Dinnanzi a noi, il Peribonka, soffocato dal peso dei tronchi, vomitava la foresta nel lago”.

Kukum sa di storie raccontate intorno al fuoco e  di calore, sa di marmellata ai mirtilli e profumo di abeti. Ha la forma della libertà e dell’ accoglienza. È pagine fatte di tradizioni e radici profonde dove ognuno può sentirsi nel posto giusto.
Ma, come tutte le storie di nativi, anche Kukum si porta addosso le ceneri del progresso che spazza via foreste e soffoca laghi, permettendo che le identità cadano nell’oblio e la felicità si tramuti in rabbia e dolore.

Allora possiamo solo affidarci alle parole, quelle tanto care a Michel Jean, per far sì che le radici non vengano strappate. Affinché il Canada ricordi che ben prima della scoperta dell’America, il suo popolo già viveva intorno al bellissimo lago Pekuakami.
Kukum è anche una splendida storia d’amore: quello di una donna verso il suo uomo, verso la sua terra, verso la sua famiglia. Un romanzo al femminile, un libro sulla dignità e la forza di Almanda che non ha mai dimenticato chi fosse e chi era diventata.

È la dura testimonianza di un mondo che ci ostiniamo a calpestare con ferocia, derubandolo e piegandolo al potere di quegli uomini incapaci di vedere cosa lasciano dietro di sé: distruzione.

Kukum mi ha rubato il cuore, mi ha condotto per mano tra gli Innu con la certezza che non smetteranno mai di camminare lungo la propria strada.

“Finché tutto questo esisterà nel mio cuore, continuerà a vivere”.

Non lasciamo che il progresso spazzi via la memoria.

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Chi è nudo non teme l’acqua | Matthieu Aikins

Chi è nudo non teme l’acqua | Matthieu Aikins

Chi è nudo non teme l'acqua Aikins

Kabul, anno 2016: i talebani avanzano e i boati delle bombe sono sempre più forti. A niente serve
alzare il volume della musica: la guerra entra dalle finestre e cammina per le strade. Fuggire dal Paese è l’unica via per la salvezza.

Questa è la storia di Omar, traduttore per le forze statunitensi che ha creduto che gli Stati Uniti gli avrebbero rilasciato il visto e che, invece, dovrà affidarsi a persone senza scrupoli per poter arrivare in Italia.
È la storia di Matthieu Aikins, giornalista e autore del libro che, con le sue sessantamila parole appuntate di notte su uno smartphone, ci racconta della terribile rotta che passa attraverso le montagne invalicabili dell’Asia Centrale fino al Mediterraneo.
È la storia di due amici conosciutisi nel 2008 quando Matthieu arrivò per la prima volta in Afghanistan e Omar era il suo interprete e al quale, negli anni di lavoro insieme, è finito per voler bene davvero.
Grazie al taglio dei suoi occhi, il colore della carnagione, la barba folta e i capelli scuri che gli conferiscono l’aspetto di un afghano, l’autore ha potuto vestire i panni di un migrante e accompagnare Omar nella rotta tanto dibattuta in tv e attaccata dai politici: quella del Mediterraneo.
Questa è la storia di cento milioni di persone con un volto e dei ricordi che, senza più nulla da perdere, non temono l’acqua; anche quando non hanno mai imparato a nuotare.

Nulla è intollerabile, finché non esiste un’alternativa, fosse anche un sogno”.

Aikins ci prende per mano e ci fa camminare nel mondo di cui sentiamo parlare, che pensiamo di conoscere e che, invece, non conosciamo affatto: è il mondo dei migranti, di coloro che lasciano la propria casa e il proprio letto in cerca di salvezza e di una vita migliore.

Come Omar che, per dare un futuro diverso alla donna che ama, si affida ai trafficanti, supera confini e pestaggi. Camminiamo con lui, sentiamo le sue paure, le sue remore, tutto il coraggio che prende a braccia aperte e porta sopra
le spalle come un fardello.
Tutto questo per approdare nel campo di Moira, sull’isola di Lesbo che somiglia più a una prigione che a un campo profughi; dove esistono umiliazione e violenza. E forse è “normale” sia così per chi certa gente non la vuole. Perché se scappi da guerra e brutalità, devi usare solo più violenza per dissuaderli dal credere di meritare una vita degna di essere chiamata tale.
Nonostante la bruttura di questo posto, Aikins (con regolare passaporto canadese) resta accanto all’amico. Non lo abbandona, siede vicino a lui con l’umiltà di chi sa che, pur essendo lì, non potrà mai davvero comprendere cosa significhi essere un rifugiato.

Esiste una disparità profonda tra noi e loro, tra paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo. E per quanto bella possa essere la parola uguaglianza, la verità è che non siamo tutti uguali.
Mi risuona una frase di Steinbeck “la gente comoda nelle case asciutte provò dapprima compassione, poi disgusto,
infine odio per la gente affamata
”.
Quando ascoltiamo o leggiamo i numeri che arrivano da noi, dobbiamo soffermarci e pensare che ogni singolo numero è una vita che chiede salvezza.
Prima di puntare il dito e esclamare che se ne potevano stare a casa loro e così non sarebbero annegati, dovremmo ricordare che sono persone che, tra mare aperto, fango e paure, non hanno MAI, nemmeno per un secondo, avuto la certezza di arrivare da qualche parte e vivere.

E allora, forse, dovremmo riconoscere che il problema non è l’emigrazione ma è quello che costringe persone uguali a noi a
cambiare radici e abitudini per un’esistenza che sarà comunque difficile. Esiliati in un posto che non li vuole e li giudica.

Tutti vorremmo cambiare qualcosa di noi, è il sogno di cui si nutre l’emigrazione: ricominciare da capo, il viaggio è il preludio, la vita viene dopo, ma nessuno può sbarazzarsi di se stesso. Abbiamo a disposizione una storia sola e la raccontiamo voltandoci indietro. L’importanza di ogni scelta, di ogni incontro fortuito, della mano di uno sconosciuto che trema sta in dove ci ha condotti. Siamo animali che raccontano storie e il nostro significato sta tutto nel finale

Abbattiamo i muri e recidiamo i fili spinati.

 

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Punacci, storia di una capra nera

Punacci, storia di una capra nera

Punacci storia di una capra nera

Che traccia può lasciare l’inizio di una vita ordinaria?

Punacci è una capretta nera appena nata, data in dono a una famiglia  povera da uno sconosciuto, forse un dio. Egli assicura che lei è un miracolo:  la settima capretta nata che, come tale, partorirà a sua volta sette capretti. Nonostante le sue fragilità e le difficoltà che dovrà affrontare, Punacci crescerà arguta, si rallegrerà di cose semplici, si innamorerà del giovane Puvan e, mentre sarà costretta a essere ingravidata da un vecchio caprone, penserà al suo amore perduto.
Nonostante Punacci dia davvero alla luce sette capretti, il miracolo si rivela una maledizione per lei e la famiglia che l’ha accudita. Può un dono trasformarsi in dolore?

La coscienza di Punacci emerge tra le meschinità della vita conducendoci in un mondo lento e immutabile, destinato alla rovina. I suoi occhi scuri osservano l’assurdità della vita, le esistenze misere destinate a un tragico perpetuarsi. . A cosa serve lottare se quello che si fa non cambia il proprio destino o quello di chi ci sta intorno?

Murugan, con il linguaggio di una favola e l’intento della denuncia sociale, ci dipinge un mondo lento e immutevole nel quale la natura è arida, dove  gli animali servono solo per essere sacrificati o per dare alla luce altri esseri destinati alla stessa sorte in un cerchio senza fine. Un luogo in cui i contadini devono  lottare per la sopravvivenza e restare muti di fronte alle ingiustizie
Se ci bastonano la schiena, dobbiamo gemere in silenzio. Non dobbiamo nemmeno respirare.

Una critica impietosa verso un mondo che l’autore conosce molto bene, tanto da non farci più distinguere quale sia l’animale e quale l’uomo. E tuttavia, in mezzo alle umiliazioni, Murugan ci mostra il coraggio di chi vive con dignità il proprio destino.
Costringono le capre, che non si piegano, a guardare il suolo, legando insieme collo e zampa posteriore con una corda per aggiogarle. Ma le capre cercano sempre di scioglierne i nodi. Le pecore invece sono fortunate a vivere senza comprendere che inchinarsi significa essere schiavi.

 Con la semplicità di una favola e la potenza di una denuncia sociale, Punacci, storia di una capra nera, rappresenta con straordinaria sensibilità la condizione di animali e uomini nell’India rurale, destinati, in egual misura a un destino di sottomissione. La piccola capretta si erge simbolo di resistenza in una quotidianità che toglie il respiro e schiaccia. Ma a che serve essere destinatari di un miracolo se non si è in grado di tutelarlo?  Che misura ha l’amore e che gusto ha la libertà?

Punacci pensò che tutto l’amore che i due le avevano mostrato si riducesse, in fin dei conti, alla lunghezza di quella corda.

Murugan ci consegna un libro che racconta l’India rurale ma che in realtà abbraccia il mondo intero poiché disparità, oppressione e povertà non hanno confini.
Fatevi un regalo e leggete “Punacci, storia di una capra nera” così vedrete tutto da una nuova prospettiva, non resterete impassibili di fronte alle ingiustizie e vi arrabbierete di fronte all’ineluttabilità del destino.

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Rifqa | Mohammed El Kurd

Rifqa | Mohammed El Kurd

Rifqa

Rifqa, di Mohammed El Kurd, è un monito a ricordare, oggi, un po’ più di ieri. È un dovere morale di fronte ai soprusi che avvengano a un passo da casa o lontani dai nostri confini.
Allora uniamoci al canto di resistenza di Mohammed El Kurd, leggiamo le sue parole e andiamo oltre. Prendiamoci il tempo, assimiliamo le sensazioni che trasmettono.

Adesso chiudiamo gli occhi e immaginiamo una nonna, Rifqa, più anziana di Israele che, ogni giorno, accoglie il suo nipotino sulla porta di casa con un mazzo di gelsomini.

“Casa”, che bella parola; sa di calore, di famiglia, di un posto sicuro sulla terra in cui affondano le nostre radici.

Poi un giorno, arrivano dei coloni israeliani che rivendicano la terra dei palestinesi, asserendo che appartiene loro per un qualche diritto e allora avviene, perpetrato nel tempo, l’esodo dei Palestinesi (in arabo Nakba).

“- Torneremo appena le cose si calmano –
e lei ha creduto,
indossando la chiave
finché la chiave   il collo   la memoria
non sono diventati dello stesso colore”

È a Rifqa che è dedicata la raccolta di poesie di Mohammed El Kurd, sua nonna, il gelsomino di Palestina morta senza poter vedere la sua terra libera “ma le prometto che i nipoti non hanno dimenticato. Questa lotta è una rivoluzione per la vittoria. Rifqa ha incarnato tutto questo, fino all’ultimo respiro”.
Rifqa, morta a 103 anni, simbolo della resilienza palestinese.

Una donna che si è mobilitata per una Palestina libera, che ha protestato nelle strade e che non si è fermata nemmeno nelle aule di tribunale.

La storia familiare si mescola a quella più grande, ripercorrendo la nakba del 1948 in cui la nonna abbandono Haifa, fino a quella recente del 2020 quando l’esercito israeliano ha tentato di prendere il quartiere di Sheikh Jarrah in cui vive la sua famiglia.

Un libro che è un inno alle donne, alle madri, alle nonne che non vengono ricordate qui solo come vittime ma come forze di un intero popolo.

Si lascia spazio anche agli uomini, spesso dimenticati, morti per la loro terra, in nome di quelle radici che non possono essere spezzate.

Mohammed El-Kurd è riuscito a rendere umani i soggetti delle sue poesie e a toccare le corde del lettore. Ha dato voce a una parte di mondo che non vive nelle certezze sulle quali, noi, possiamo addormentarci ogni notte. Ha combattuto e combatte in nome del sacrosanto diritto alla libertà.

A distanza di anni, le scene a cui assistiamo, sono la testimonianza di una violenza reiterata nel tempo; oggi come ieri.
Può la speranza continuare a sopravvivere tra i suoni dei fucili?

Sì, non arrugginirà. Così come la chiave appesa al collo di Rifqa e ovunque si leveranno i canti di liberazione e di denuncia.

Un grazie speciale alla Fandango editore e al traduttore Emanuele Bero per aver reso possibile la lettura di questo testo anche nel nostro paese.

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I titoli di coda di una vita insieme | Diego De Silva

I titoli di coda di una vita insieme | Diego De Silva

I titoli di coda di una vita insieme

I titoli di coda di una vita insieme è la “sintassi della fine”. L’esigenza dell’autore, Diego De Silva, di porre l’accento su una parola tanto temuta che qui ha la veste di un amore al crepuscolo.

«Io vorrei isolare il momento in cui ho visto la crepa e ho preso atto della fine, ma non lo trovo, perché non c’è. L’amore è discreto nel morire, non si lamenta e non fa scenate, non c’informa quando si ammala. Siamo noi a risponderne, e tutto quello che gli capita è colpa nostra». 

La storia è raccontata a due voci, quelle di Fosco e Alice che, al capolinea del loro amore, si riappropriano delle loro identità offrendoci due punti di vista differenti dei fatti. Lo specchio di un matrimonio che va avanti finché le due voci si fondono in una e che collassa su sé stesso quando le parole e i gesti non si incastrano più.

Ecco che le parole sono lasciate a documenti giuridici, a citazioni che uccidono e mortificano l’amore stesso. Atti che non possono narrare una storia, che non spiegano chi sono Fosco e Alice, che non conoscono un matrimonio lungo una vita.

Alice vuole una separazione da palcoscenico, vuole la tragicità. Fosco, invece, sembra subire la sua decisione. Non urla, non rompe piatti ma nemmeno vuole ridurre l’amore a frasi giuridiche.

Allora bisogna fare ritorno al passato. A una casa perduta, a cose mai ritrovate. A quel sapore fanciullesco, alla giovinezza di un tempo che non è più, ai cani amati, alle persone amate e perdute.

«Ci si lascia perché ci si vuol bene», scrive De Silva. E forse è proprio così. Perché l’amore pretende, è avido e quando finisce ci insegna la solitudine a suon di cicatrici.

Eppure, quando l’amore finisce, quando si giunge a I titoli di coda di una vita insieme, non si sa nemmeno come si è arrivati e che senso ha.

Dopotutto «La verità è che non c’è senso nella fine di un amore. Come nell’inizio, del resto».

De Silva, con una penna ironica dai toni malinconici, ci restituisce le sfumature di una storia che si avvia inesorabile alla fine e che somiglia tanto alle nostre storie spezzate.

Leggendo questo romanzo ci rattristeremo, ci arrabbieremo, rivedremo i pezzi delle nostre relazioni che non si sono incastrati, che si sono frantumati. Ma, a pagina conclusa, faremo un bel respiro, guarderemo verso l’infinito e andremo avanti da soli o in una vita insieme.

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Palermo è una cipolla Remix, di Roberto Alajmo

Palermo è una cipolla Remix, di Roberto Alajmo

Palermo è una cipolla remix; Roberto Alajmo

Lontano dall’essere una guida turistica, Palermo è una cipolla Remix, è un attento, ironico e intelligente racconto che ci rivela l’autenticità di Palermo, qui chiamata solo la “Città”.
Versione aggiornata della precedente edizione (uscita sempre per Laterza nel 2005), il libro si fa portavoce di un itinerario che accompagna il viaggiatore/lettore nell’anima di Palermo.

Alajmo ci spiega cos’è l’annacamento tipico dei palermitani (e pure delle zone mie, se vogliamo dirla tutta); ci mostrerà i luoghi iconici di Palermo, la peculiarità dei suoi cittadini di cambiar nome alle cose: così “la Chiesa di Sant’Agostino è la Chiesa di Santa Rita, Piazza Verdi è per tutti Piazza Massimo e Piazza Giulio Cesare è la Stazione, senza piazza; così come piazza Vittorio Veneto è diventata semplicemente la “Statua””.

Dalle strade che diventano isole pedonali mettendo d’accordo tutti e nessuno, dalle prelibatezze culinarie ai luoghi comuni da sfatare, dal profano al sacro; questa è  Palermo, e molto di più.

È la coscienza che si eleva contro la mafia, le riflessioni sul sindaco Orlando e sull’ex allenatore del Palermo, Zamperini.

Cammineremo in Piazza Pretoria, passeggeremo davanti ai Quattro Canti fino a giungere nei quartieri periferici della Kalsa. Quelli da evitare, quelli che, però, nel disastro conservano il loro fascino.

“Per quanto cinico possa sembrare, buona parte del fascino della Kalsa – e della Città, in generale – sembra consistere nella sua disperazione. La sua migliore risorsa è il disastro. […] Qui si riconoscono tutte le sue contraddizioni. È una zona ad altissima densità mafiosa. Eppure, in questo quartiere sono nati Falcone e Borsellino”.

E allora Palermo è una cipolla che va sbucciata, analizzata pezzo dopo pezzo. Tolto il primo strato ne troviamo uno nuovo, e un altro ancora, fino ad arrivare al cuore: quello della Città. Quello da cercare, trovare e comprendere.

Palermo è una cipolla Remix risponde, quindici anni dopo, alla domanda “è cambiata la Città?”. Ebbene sì, Palermo è cambiata.

“Del resto, sarebbe strano se così non fosse, visto che nell’arco dell’ultimo ventennio è cambiato il mondo. E siccome la parola cambiamento non è sinonimo puro e semplice di miglioramento, vale la pena di specificare: sì, in moltissime cose la Città è cambiata nella direzione del meglio. Senza cedere al trionfalismo, opposto correlato del disfattismo, oggi siamo messi almeno un po’ meglio di come eravamo messi prima”.

Alajmo riempie le pagine di orgoglio e sarcasmo cosicché il libro diviene carezza e rimprovero per una città dall’anima irrequieta che perfetta non sarà mai.

Ma Palermo, è una cipolla? Sì, da sbucciare ancora e ancora.
Che si ami il gusto, che lo si trovi forte o che lo si preferisca accompagnato ad altre salse, nessuno rimarrà indifferente al sapore e all’atmosfera del capoluogo siciliano.

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Demon Copperhead | Barbara Kingsolver

Demon Copperhead | Barbara Kingsolver

Demon Copperhead recensione

Demon Copperhead è tutte quelle generazioni di bambini orfani di genitori morti di overdose, ingannati da case farmaceutiche dedite solo al profitto.

È tutti quei ragazzi che non sono stati ascoltati, gettati in pasto a sistemi affidatari che non funzionano.

È il libro degli Appalachi, sull’Appalachia, una regione dimenticata e sfruttata fino allo stremo e i cui abitanti sono lasciati ai margini.

La Kingsolver dà voce alle comunità rurali, restituisce loro la dignità senza temere di denunciare un sistema americano che non funziona e di puntare il dito contro la Purdue Pharma per aver approfittato del dolore senza informare la popolazione degli effetti “indesiderati”.

Ma sono le cose che hai dentro a trascinarti davvero giù. Quell’irrequietezza che hai nelle viscere. Desideri senza speranza che non smettono mai di tormentarti: parole perfette che credi di poter dire a qualcuno per costringerlo a vederti, amarti, restare”.

È questa la vita di Demon Copperhead, un moderno Devid Copperfield nella Lee County, Appalachi, Virginia.
Viene al mondo sul pavimento sudicio della sua casa/roulotte dalla madre diciottenne tossica e già orfano di padre. La sua nascita è il preludio di un cammino ai bordi del dolore, delle perdite e delle dipendenze.

Ce lo narra Demon in prima persona, senza filtri, brutale come i drammi che la vita impone costringendo a soccombere o a sopravvivere.

Demon imparerà a camminare sulle sue gambe fragili, sempre affamato di qualcosa che non sa riconoscere: vittima di un sistema affidatario fallimentare, di adulti incapaci di assolvere al loro compito.
A scaldare i giorni senza sole ci saranno i suoi disegni, il sogno di vedere l’oceano, un periodo di gloria nella squadra di football più importante del paese.

Ma un infortunio al ginocchio rompe le sue speranze, lo costringe all’assunzione di medicine contenenti l’ossicodone: è l’inizio di una rapida discesa nel baratro della dipendenza e di una lenta scalata verso la sopravvivenza.

Demon arranca, sprofonda; e con lui si frantumano le vite della dolce e bella Emmy, dell’infelice Fast Forward, del fragile Maggot. Quattro ragazzi smarriti che cercano di raggiungere l’oceano senza nemmeno averci provato davvero.

In molti avevano fatto del loro meglio con noi, ma noi venivamo da madri troppo affamate. Quattro demoni generati da quattro diversi cuori affamati”.

Salvarsi è solo una scelta e risiede nella speranza che, nonostante tutto, alberga in Demon. Frutto della bontà di altri essere umani, quelli che stanno dalla parte giusta della storia, quelli capaci di vedere e tendere la mano: gli eroi di ogni giorno.
Grazie zia June, Mr e Ms Peggot, Mrs Annie. Grazie Dori (troppo fragile in un mondo miserabile), grazie Angus e grazie soprattutto a te, caro Demon, bambino affamato solo d’amore.

Parlammo per tutto il viaggio attraverso la Shenandoah Valley. […]  Guidavo con la sinistra, il braccio destro appoggiato sullo schienale del suo sedile e con il pollice le accarezzavo i capellini corti sulla nuca. […] Ecco dove siamo. Superata da un pezzo l’uscita di Christianburg. Oltre Richmond, e ancora diretti a est. Verso l’unica cosa enorme che so per certo non mi inghiottirà vivo”.

Questo romanzo è un capolavoro. Un classico dell’era moderna che avrà qualcosa da dire anche dopo e che non potete non leggere. Ho voluto bene a Demon Copperhead per il coraggio di vivere una vita che lo ha preso a pugni in faccia, per aver permesso che l’amore lo travolgesse e che l’oceano lo curasse.

Vuoi pensare che non sia finita fino all’ultima pagina”.

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Le farfalle di Sarajevo | Priscilla Morris

Le farfalle di Sarajevo | Priscilla Morris

le farfalle di Sarajevo

Farfalle di Sarajevo è una lettura necessaria, soprattutto oggi, per ricordare di non voltarci dall’altra parte dinanzi alle guerre e alle atrocità. Non è stato facile scegliere le parole per raccontarvi questo libro. Spero siano sufficienti per invogliarvi alla lettura.

Sarajevo è bella. Il suo profilo è delineato dalle montagne. Gli antichi quartieri ricordano che la sua storia affonda le radici in epoche lontane. I meravigliosi ponti ottomani, le chiese cattoliche, il fascino dei bazar e dei suoi tetti rossi. Sarajevo è sempre stata esaltata come un modello di tolleranza.
Un esempio di convivenza pacifica. Sì, perché mezza Sarajevo è musulmana, un quarto serba, meno di una persona su dieci è croata. Un terzo dei matrimoni è misto e i figli si definiscono semplicemente jugoslavi.

È così che la vede Zora, rimasta a Sarajevo dopo aver mandato la madre e il marito in Inghilterra a casa della figlia. È aprile 1992 e un mese prima la Bosnia-Erzegovina aveva dichiarato la sua indipendenza dalla Jugoslavia. Qualcosa inizia a muoversi. L’atmosfera è surreale. Molte sono le famiglie che fuggono da Sarajevo. Ma Zora, la “pittrice di ponti”, resa famosa dalla sua arte, continua a dipingere e insegnare nello studio all’ultimo piano della Viječnica, la biblioteca nazionale con la splendida cupola di vetro azzurro.

Non fa in tempo ad accorgersi di cosa accade intorno che, mentre si ritrova a pranzo con i suoi vicini di casa, lo scoppio di una bomba infrange i vetri e rompe le certezze. Perfino oltrepassare il magnifico ponte delle Capre non è più possibile. “Questa adesso è Republika Srpska. Solo serbi”.

Nell’alternarsi delle stagioni prende vita il racconto sui giorni vissuti da Zora durante l’assedio di Sarajevo. La sua città è bombardata, l’inverno entra con prepotenza dalle finestre rotte. Acqua ed elettricità sono state tagliate. Sugli scaffali non c’è più cibo, la gente non può lavarsi e fuori sale il puzzo dei cadaveri lasciati a marcire per le strade. I buchi alla cintura sono sempre di più, si cucinano ortiche e piccioni.

I vicini di Zora diventano la sua famiglia. Sopravvivono e soffrono insieme. Una, la bambina di otto anni, diventa la sua ancora di salvezza in una città grigia e senza vita. L’albero che dipingono sulla parete le ricorda che la vita è più forte e rinascerà, nonostante le bombe.

E poi c’è Mirsad, il libraio, al quale si stringe nelle lunghe e fredde notti d’inverno.
E poi ci sono le farfalle di Sarajevo che si posano leggere tra i capelli. Sono i frammenti di libri bruciati insieme alla Viecnica, la biblioteca nazionale.
E c’è una bambina uccisa mentre sorrideva alla vita.

Trascorrono 10 mesi prima che Zora venga salvata dal genero e da Eddie l’olandese.
La guerra durerà per altri 34 mesi.
Ma il primo anno fu il peggiore in termini di persone uccise. Nel luglio 1995 si urlerà genocidio a Srebrenica. A dicembre 1995 le bombe smetteranno di esplodere.

Farfalle di Sarajevo è un libro intenso, quasi a tratti poetico e la scrittura di Priscilla Morris si rivela delicata e diretta.
Come la stessa autrice ci racconta, le vicende prendono spunto dalle narrazioni di chi la guerra l’ha vissuta, invitandoci a documentarci.

Lo stesso invito lo rivolgo a voi per comprendere meglio l’eterogeneità slava, quella differenza che nasce da un’identità comune.
Dove la lingua non è identificativa di una razza, né lo è la religione.

<< Ho preferito il termine “nazionalità”per evitare ogni indicazione che i tre gruppi siano antropologicamente diversi. […] appartengono al medesimo ceppo slavo e non hanno tratti somatici che li differenzino.

L’identità nei Balcani è un fatto serio. Un fatto che ha portato a troppe morti mentre l’Occidente preferiva non guardare.

Quindi leggiamo, informiamoci e mettiamoci dalla parte giusta della storia.

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